Platone, Lachete, 190-199e [ca. 398-388 a.C.]: il coraggio

 

1.                Tanto meglio si può comprendere il testo che segue quanto più se ne conoscono i presupposti di ordine filosofico, storico, narrativo. Essi, infatti, ne guidano l’interpretazione (esercizio di ordine ermeneutico)

1.1.            Presupposti filosofici della discussione sono:

1.1.1.                  per virtù intendiamo la capacità di agire bene;

1.1.2.                  chi sa ciò che è bene (ne ha scienza) non può non farlo (intellettualismo socratico);

1.1.2.1.              [ergo] la virtù si risolve nella scienza del bene.

1.2.            Presupposti storici (contesto) della discussione sono:

1.2.1.                  Nell'età arcaica, omerica, prima di Senofane, la virtù era intesa soprattutto come la capacità di acquisire il potere con ogni mezzo (di forza o di astuzia).

1.2.2.                  Nell'epoca classica greca (V sec. a. C.) venivano ancora esaltate qualità quali carattere, forza d'animo, vigore fisico ecc., tutte proprie degli "uomini di guerra", degli "eroi" pronti a morire in battaglia ai quali spettava, come riconoscimento della loro virtù, l'onore, la lode e il prestigio, ancora maggiori in morte che in vita.

1.3.            Presupposto narrativo (antefatto) è il seguente:

1.3.1.                  Nìcia e Lachéte, due anziani generali ateniesi, sono interpellati da Lisìmaco e Melèsia, preoccupati dell'educazione da dare ai figli, sulla validità dell'esercizio militare. Nicia ne sostiene l'opportunità, Lachete dubita che sia sufficiente a formare uomini di valore. Socrate, chiamato a dare il suo giudizio sulla questione, porta la discussione sul coraggio.

 

a.       (184d) SO.: Che vuoi dire, Lisimaco? Che [riguardo al coraggio] intendi accettare l'opinione che avrà il maggior numero dei nostri consensi? LI.: E che altro si potrebbe fare, Socrate? SO.: Anche tu farai lo stesso, Melesia? Se dovessi decidere a che tipo di esercizi addestrare (e) tuo figlio, ti rimetteresti alla maggioranza di noi, o a chi fosse stato educato e addestrato da un buon maestro? ME.: A quest'ultimo, naturalmente, Socrate. SO.: Avresti più fiducia in lui che in noi quattro messi insieme? ME.: Probabilmente sì, Socrate. SO.: Anche secondo me, in effetti, il valore di un giudizio dipende dalla scienza e non dal numero delle opinioni. ME.: E come no?

b.      (190d) SO.: Allora, Lachete, cominciamo a dire che cos'è il coraggio; dopo, potremo indagare (e) come darlo ai giovani, per quanto possibile, attraverso l'esercizio e lo studio. Prova dunque a dire cos'è il coraggio. LA.: Per Zeus, Socrate, non è difficile dirlo. Chi, in battaglia, resta al suo posto, combatte contro i nemicì e non fugge, questo è un uomo di coraggio.

c.       SO.: Dici bene, Lachete, ma forse è colpa mia, che non mi sono spiegato chiaramente, se hai risposto non a ciò che pensavo, ma ad altro. LA.: Che vuoi dire, Socrate? SO.: Te lo spiegherò, se riesco. (19la) Certo l'uomo che dici, che resta al suo posto e combatte i nemici, ha del coraggio. LA.: Almeno credo. SO.: Lo credo anch'io. Ma quello che, invece, non resta al proprio posto, ma combatte il nemico indietreggiando? LA.: Come sarebbe, indietreggiando? SO.: Come fanno gli Sciti, per esempio. [...] (c) Ma sono io che non ti ho posto bene la domanda. Io volevo chiederti cos'è il coraggio non solo dei fanti, ma anche dei cavalieri (d) e di ogni tipo di combattenti, e non solo di chi fa la guerra, ma anche di chi affronta ì pericoli del mare e le malattie e la povertà e gli eventi politici,, e di chi non solo resiste al dolore e alla paura, ma sa combattere le passioni e i piacerì, sia stando al proprio posto, sia volgendo in fuga. Perché, o Lachete, ci sono anche degli uomini dì coraggio in queste cose. (e) LA.: E anche molto, Socrate. SO.: Dunque, tutti questi hanno coraggio, ma alcuni lo mostrano contro i piaceri, altri contro i dolori, altri contro le passioni, altri contro la paura; così come altri, nelle medesime circostanze, mostrano viltà. LA.: Certo. SO.: Io volevo sapere appunto cosa sono il coraggio e la viltà. Prova dunque di nuovo, e dimmi che cos'è il coraggio, cioè quel che c'è di identico in tutte queste circostanze.

d.      (192b) LA.: Dunque, se vogliamo dire quale è la sua natura in generale, in tutte queste circostanze, mi pare (e) che sia una certa forza dell'anima. SO.: Dobbiamo, se vogliamo rispondere alla nostra domanda. Tuttavia, credo che per te non ogni forza d'animo sia coraggio; e ciò perché credo tu annoveri il coraggio tra le cose più belle. LA.: Su questo non aver dubbi. SO.: Ma la forza non è bella e buona quando è accompagnata dal senno? LA.: Certo. SO.: E quando è accompagnata da dissennatezza? Non è allora cattiva e dannosa? (d) LA.: Sì. SO.: Non potrai dunque chiamare coraggio questa forza, visto che non è bella. LA.: Hai ragione. SO.: In base a quanto hai detto, allora, il coraggio è una forza retta dall'intelligenza. LA.: Così pare.

e.       SO.: Vediamo dunque nei confronti di che cosa deve esercitarsi l'intelligenza. (e) Per esempio, uno che avesse la forza d'animo di spendere oculatamente, in vista di un maggior profitto, lo diresti coraggioso? LA.: Io no, per Zeus. SO.: E un medico, che di fronte al malato che chiedesse da bere e da mangiare, resistesse con forza d'animo alle richieste? (193a) LA.: Il suo non sarebbe in nessun modo coraggio. SO.: E in guerra, uno che, calcolando che stanno per venirgli in aiuto, si limitasse a combattere contro un gruppo meno numeroso e più debole del suo, e da una posizione più vantaggiosa, tu lo diresti più coraggioso di un altro che resistesse con tutte le forze tra le schiere nemiche? LA.: Mi sembra più coraggioso quest'ultimo, che combatte nel campo avversario. (b) SO.: E il cavaliere che combatte conoscendo l'arte ippica, lo dirai meno coraggioso di quello che combatte senza possederla? LA.: Certo. SO.: E lo stesso dirai del fromboliere, dell'arcíere e di ogni altro che possieda una tecnica? LA.: Esatto. (e) 1 SO.: E così di tutti quelli che mostrano energia nel compiere certe azioni, pur non essendo degli esperti? LA.: lo la penso cosi. [...] SO.: Ma poco fa non eravamo d'accordo (d) che il coraggio e la forza non retti dal senno sono brutti e dannosi? LA.: Sì? SO.: E anche che ò coraggio fosse bello. LA.: Anche. SO.: Ma ora, al contrario, affermiamo che è brutto, dato che lo poniamo nella forza senza intelligenza. LA.: Sembra di sì. SO.: E ti pare che abbiamo ragionato bene? LA.: Per Zeus, Socrate, mi pare proprio di no.

f.        (194c) NI.: Ma Socrate, voi non riuscite a definire il coraggio perché non utilizzate un'idea che ti ho sentito esporre bene altre volte. SO.: E quale, Nicia? NI.: Ti ho sentito più volte dire che ciascuno (d) di noi è buono nelle cose che sa, e cattivo in quelle che non sa. SO.: Per Zeus, è vero, Nicia. NI.: Allora, se chi ha coraggio è buono, è chiaro che possiede la scienza del coraggio. SO.: Hai sentito, Lachete? LA.: Sì, ma non capisco bene cosa intende. SO.: Io credo di capire e mi pare che intenda che il coraggio è una certa forma di scienza. LA.: Quale scienza, Socrate? SO.: Ma non è lui che vuoi interrogare? (e) LA.: Sì. SO.: Allora, Nicia, digli che forma di scienza intendi che sia il coraggio... NI.: Questa, Lachete: la scienza di ciò che si deve temere e di ciò che si deve osare, sia in guerra che in tutte le altre circostanze. (195a) [...] LA.: Ma questo è assurdo, Socrate! SO.: In che senso, Lachete? LA.: In che senso? Ma la scienza non c'entra nulla col coraggio. (b) Nelle malattie, ad esempio, non sono i medici a sapere quel che c'è da temere? O ti sembra che siano i coraggiosi? O chiami coraggiosi i medici? NI.: Certo che no. [...] (e) I medici sanno solo distinguere il sano dal malato; ma se per uno sia più da temere la malattia o la salute, questo non lo sanno... [...] (d) SO.: Capisci ciò che vuol dire, Lachete? LA.: Io capisco che chiama coraggiosi gli indovini. Chi altri infatti saprà se è preferibile vivere o morire? [...]
(196d) SO.: Vediamo, Nicia: tu affermi che il coraggio è la scienza di ciò che si deve temere e di ciò che si deve osare? NI.: Lo affermo. SO.: E che non è da tutti conoscerla, se né il medico né l'indovino potranno conoscerla né essere coraggiosi, a meno che non aggiungano al loro sapere questa scienza. Questo volevi dire? NI.: Questo, sì. SO.: Allora è come dice il proverbio: non ogni scrofa può saperlo ed esser coraggiosa. [...] (197a) LA.: Bene, per gli dèi, Socrate. Di' la verità, Nicia: le fiere, che riconosciamo coraggiose, sono più sapienti di noi, oppure osi, contro tutti, negare che abbiano coraggio? NI.: Ma, Lachete, io non dico coraggiosi né le fiere né alcun altro essere che non tema ciò che va temuto per ignoranza; piuttosto, li chiamo temerari o pazzi... [...]
(199b) SO.: Bene, Nicia... Ma non sei d'accordo che le cose da temere sono i mali futuri e quelle da non temere i beni futuri? NI.: Sì. SO.: Ma la scienza che ha per oggetto le stesse cose è la stessa, siano esse future o di ogni altro tempo. NI.: È così. SO.: Allora, il coraggio non è solo la scienza di ciò che si deve temere e non temere, perché non conosce solo i beni e i mali futuri, ma anche quelli passati, presenti e di ogni tempo, come le altre scienze. (c) NI.: Così pare. [...] (e) SO.: Dunque, Nicia, il coraggio di cui parli non sarebbe una parte della virtù, ma la virtù tutta intera. NI.: Sembra di sì. SO.: Noi però dicevamo che il coraggio è una parte della virtù. NI.: E' vero. SO.: Allora, Nicia, non siamo riusciti a individuare che cosa sia il coraggio. NI.: Evidentemente no. LA.: E io che credevo che l'avresti scoperto, Nicìa, visto il tuo disprezzo per le risposte che io davo a Socrate. (200a) NI.: Son contento che tu non dia peso alla figura che hai fatto, di non sapere nulla sul coraggio, ma lo dia al fatto che io mi trovi nella stessa situazione... (e) LA.: lo invece consiglierò a Lisimaco e a Melesia di lasciarci perdere entrambi e di rivolgersi a Socrate per l'educazione dei figli.

Casella di testo: ?                                                                                                                

2.                Enucleiamo le principali tesi emergenti dal testo e, quando possibile, le relative argomentazioni.

2.1.            Per sapere che cosa è una cosa è meglio sentire il parere della maggioranza o degli esperti? Perché è meglio fare una cosa piuttosto che l'altra?

2.1.1.                  Per sapere che cosa è una cosa è meglio rivolgersi agli esperti.

2.1.1.1.              Ciò dipende dal fatto che il valore di un giudizio dipende dalla scienza che esso incorpora (relativa all'oggetto del giudizio) e non dal numero delle opinioni di coloro che concordano sul giudizio stesso.

2.2.            Perché la prima risposta di Lachete alla domanda di Socrate (che cosa sia il coraggio) appare inadeguata?

2.2.1.                  La prima risposta di Lachete alla domanda di Socrate (che cosa sia il coraggio) appare inadeguata perché propone solo un esempio di coraggio, mentre quello che si richiede è di sapere "quel che c'è di identico in tutte le circostanze" in cui c'è del coraggio, ovvero la "natura generale del coraggio".

2.3.            Come spiegare storicamente la tesi di Lachete?

2.3.1.                  La tesi di Lachete, cioè il coraggio sia una certa forza d'animo esemplificata da coloro che restano al proprio posto durante il combattimento, battendosi contro i nemici senza fuggire, è storicamente spiegabile come segue. Nell'epoca classica greca (V sec. a. C.) venivano ancora esaltate qualità quali carattere, forza d'animo, vigore fisico ecc., tutte proprie degli "uomini di guerra", degli "eroi" pronti a morire in battaglia ai quali spettava, come riconoscimento della loro virtù, l'onore, la lode e il prestigio, ancora maggiori in morte che in vita.

2.4.            Su quale base il coraggio appare, a un certo punto, una forza retta dall'intelligenza?

2.4.1.                  Il coraggio appare, a un certo punto, una forza retta dall'intelligenza se si ammette che sia un certa forza d'animo precisando che è una forza buona e presupponendo che per essere tale debba accompagnarsi al senno, o all'intelligenza.

2.5.            Quale la difficoltà (aporia) in cui ci si imbatte definendo il coraggio forza retta dall'intelligenza?

2.5.1.                  La difficoltà (aporia) in cui ci si imbatte definendo il coraggio forza retta dall'intelligenza consiste in questo: in molti casi sembra che sia più coraggioso - di un altro - chi agisce sapendo meno - di costui - quello che fa.

2.6.            Quale la proposta di Nicia relativa alla domanda che cosa sia il coraggio e perché, quantunque sembri avvicinarsi all'opinione di Socrate, appare ancora inadeguata?

2.6.1.                  Nicia propone di intendere il coraggio come scienza di ciò che si deve temere e di ciò che si deve osare. Questa definizione, benché sembri avvicinarsi all'opinione di Socrate, appare ancora inadeguata. Infatti, ciò che si deve temere sono i mali futuri e ciò che si deve osare riguarda i beni futuri. Ma la scienza dei beni e dei mali, che siano presenti, passati o futuri, è sempre la stessa. Dunque il coraggio sarebbe la scienza del bene, semplicemente.

2.7.            Confronta la definizione di Nicia, relativa al coraggio, con la concezione omerica della virtù.

2.7.1.                  Nicia definisce la virtù come scienza di ciò che è da temere e ciò che è da osare. Nell'età arcaica, omerica, invece, prima di Senofane, la virtù era intesa come la capacità di acquisire il potere con ogni mezzo (di forza o astuzia). Sembrano concetti piuttosto distanti. L'unico punto in comune è un certo ruolo dell'intelligenza da accostare all'energia meramente fisica.

2.8.            Perché il coraggio risulta alla fine essere la virtù tutta intera e quale l'aporia insita in questa definizione?

2.8.1.                  Il coraggio risulta alla fine essere la virtù tutta intera se ammettiamo che esso coincida con la scienza del bene, semplicemente. Infatti, se accettiamo il presupposto che la virtù si risolva nella scienza del bene, cioè che virtuoso sia semplicemente colui che sa che cosa sia il bene, allora il coraggio, in quanto scienza del bene, coincide con la virtù tutta intera. Ma questa definizione è aporetica se partiamo, a nostra volta, dal presupposto che il coraggio non sia la virtù tutta intera ma solo "una" tra diverse virtù, dunque solo una parte della virtù tutta intera.

 

3.                Implicazioni della discussione sono:

3.1.            se voglio dare una definizione di qualcosa non è sufficiente che ne porti esempi ma devo trovare quel che c'è di identico in tutti i casi in cui la cosa appare, ossia trovare la natura o essenza della cosa;

3.2.            se la conseguenza di un'ipotesi ne contraddice i presupposti, ci imbattiamo in una particolare difficoltà, detta aporia, e dobbiamo cambiare l'ipotesi di partenza;

3.3.            non è semplice definire che cosa sia il coraggio;

3.4.            in ogni caso il coraggio implica scienza, perché nessuno direbbe coraggioso uno che non sa quello che fa (ma lo direbbe insensato);

3.5.            il coraggio implica anche bontà, perché nessuno direbbe coraggioso uno che fa del male.

 

4.                Conclusivamente possiamo osservare quanto segue.

4.1.            Secondo una concezione diffusa nel mondo greco arcaico (VIII-V sec. a. C.) e riproposta oggi in modo esplicito o implicito (per esempio da certa fiction americana) la principale "caratteristica" che deve possedere colui che vuole agire bene, ossia la dote o abilità principale (areté, dicevano i greci, che traduciamo con virtù) è il coraggio.

4.1.1.                  Che cosa significa "virtù"? La virtù (in greco: areté) è ciò in cui l'uomo (come singolo o come specie) può eccellere. Per l'età arcaica era il coraggio (areté eroica), ma la filosofia (con Socrate) argomenta che non ci può essere virtù senza scienza della virtù e che, quindi, virtù in senso proprio è solo il sapere (in particolare: la scienza del bene).

 

5.                Questo testo ci può soccorrere nel discutere che cosa sia il coraggio.