Platone, Fedone [70d-72a; 95b-106d]

 

Immortalità dell’anima: la prova delle idee

 

XLVIII. — Dopo ciò, egli disse, stanco com’ero di tali indagini, credetti bene guardarmi da questo, che cioè non mi capitasse come a coloro che durante una ecclissi contemplano e indagano il sole: alcuni infatti ci perdono gli occhi, se non si limitano a considerarne l’immagine riflessa  nell’acqua o in qualche cos’altro di simile. E così pensai anch’io, e temetti mi s’accecasse del tutto l’anima a voler guardare direttamente le cose con gli occhi e a cercare di coglierle con ciascuno dei sensi. E mi parve che mi bisognasse rifugiarmi nei concetti, e considerare in essi la realtà delle cose esistenti. Sebbene forse, in certo senso,  la similitudine non si addice. Perché io non posso ammettere che chi considera le cose nei loro concetti le vegga in immagine più di chi le consideri nella loro realtà. Io mi misi dunque per questa via; e, assumendo caso per caso come vero quel concetto che io giudicassi più sicuro e più saldo, le cose che a codesto concetto mi parevano accordarsi, queste ritenevo come vere, sia rispetto alla causa sia rispetto a tutte le altre questioni; quelle che no, ritenevo come non vere. Ma voglio chiarirti meglio ciò che intendo di dire. Perché penso che tu ora non capisca. —No, disse Cebète, non troppo.

XLIX. —Eppure, rispose Socrate, questo ch’io dico non è niente di nuovo, ma quello sempre che già altre volte e anche nel precedente ragionamento non ho mai cessato di dire. E ora son qui per tentare di dimostrarti qual è questa specie di causa che mi sono costruita, e torno di nuovo a quei punti dei quali già fu discorso più volte, e ricomincio da quelli. Poniamo dunque che esista un bello in sé, un buono in sé, un grande in sé, e così via: le quali cose se tu mi concedi e ammetti che esistano realmente, io ho speranza, movendo da queste, di scoprire la vera causa e di dimostrarti che l’anima è immortale. —Sta  bene, disse Cebète: fa pur conto ch’io ti conceda ciòe affretta, ti prego, le tue conclusioni. —Esamina dunque, egli disse, quello che da codesti punti consegue, se anche a te pare lo stesso che a me. A me pare infatti che, se c’è cosa bella all’infuori del bello in sé, per nessuna altra ragione sia bella e non perché partecipa di codesto bello in sé. E così dico, naturalmente, di tutte le altre cose. Consenti tu che la causa sia questa? —Consento, rispose. —E allora, riprese Socrate, io non capisco più e non posso più riconoscere le altre cause, quelle dei dotti. E se uno mi dice perché una qualunque cosa è bella, sostenendo che è bella o perché ha un colore brillante o  perché ha una sua figura o comunque per altre proprietà dello stesso genere, ebbene, io tutte codeste altre cause le lascio perdere, perché in esse tutte mi confondo; e mi tengo fermo a questa mia, sia pur ella semplice e grossolana e forse anche sciocca: e cioè che niente altro fa sì che quella tal cosa sia bella se non la presenza o la comunanza di codesto bello in sé, o altro modo qualunque onde codesto bello le aderisce. Perché io non insisto affatto su questo modo, e dico solo che tutte le cose belle sono belle per il bello. E questo pare a me che sia l’argomento più sicuro per rispondere a me stesso e ad altri; e, tenendomi  stretto a questo, penso che non potrò mai cadere, e che per me e per ogni altro la cosa più sicura da rispondere sia questa, che le cose belle sono belle per il bello. O non pare anche a te così? —Mi pare.

 

—E non ti pare dunque che per la grandezza le cose grandi siano grandi e le maggiori maggiori, e per la piccolezza le cose minori minori? —Sì. —Se dunque uno ti dicesse che un tale è più grande di un altro per il capo, e che il più piccolo dei due è più  piccolo egualmente per il capo, tu non potresti accettare neppure codesto: e protesteresti vivamente che tu non intendi dire altro se non che il più grande, qualunque cosa sia più grande di un’altra, per niente altro è più grande se non per la grandezza, e che questa appunto è la causa per cui è più grande, la grandezza; e tutto ciò che è più piccolo per niente altro è più piccolo se non per la piccolezza; e che questa appunto è la causa per cui è più piccolo: la piccolezza. Infatti, se tu dicessi che per il capo uno è più grande di un altro e quest’altro più piccolo, avresti paura, credo, ti si facessero contro queste due obiezioni: primo, che per la stessa cosa il maggiore è maggiore e il  minore minore; e poi, che il più grande è più grande per il capo che è cosa piccola; e riconosceresti che è in verità mostruoso che uno sia grande per cosa che è piccola. Non è vero che avresti paura di tali obiezioni? —E Cebète, ridendo: Sì, certo, disse. — E anche, soggiunse, non avresti paura di dire che il dieci è più dell’otto per il due, e che proprio questo due è la causa per cui il dieci supera l’otto; e non invece che è per la pluralità, e che appunto questa pluralità è la causa del suo essere più? e che il bicùbito è maggiore del cùbito per la metà, e non invece per la grandezza? Si tratta sempre, mi pare, della stessa paura. —Di certo, disse. —E ancora, se si aggiunge uno a uno, non avresti ritegno a dire che sia codesta addizione la causa del diventar due, e, se si divide  uno in due, che la causa sia codesta divisione? E dirai alto e forte che tu non sai come altrimenti una data cosa si generi se non in quanto viene a partecipare di quella essenziale realtà che è propria di quella data idea di cui ella partecipa; e così, nei casi sopra detti, tu non hai altra causa da addurre di codesto diventar due se non la partecipazione alla dualità, e che di questa dualità bisogna partecipino le cose che sono per diventar due, e della unità la cosa che è per diventar uno; e le divisioni e le addizioni e tutte le altre sottigliezze di questo genere le manderai a spasso, lasciando ai più sapienti di te che se ne servano  nelle loro risposte: ma tu, per paura, come si dice, della tua propria ombra e della tua ignoranza, ti terrai stretto all’appoggio sicuro di codesta ipotesi e risponderai in questo modo.

 

Che se poi qualcuno si ostini contro codesta ipotesi per se sola, lo lascerai dire e non risponderai se prima tu non abbia esaminato le conseguenze che da quella risultano, e cioè se ti pare siano d’accordo fra loro o no; e, quando ti bisogni dar conto di codesta ipotesi in sé, allora procederai allo stesso modo ponendo a sua volta un’altra ipotesi, quella che ti sembri via via la migliore fra quelle che sono più in alto e cioè di carattere più universale, fino a che tu non giunga a qualche cosa che sia  sufficiente per se medesimo; e così non ti impiglierai nella confusione degli antilogici [= sofisti] , i quali mettono in discussione contemporaneamente il punto di partenza e le sue conseguenze, se veramente vuoi scoprire delle cose la verità. Perché costoro, mi sembra, della verità non fanno alcun conto né si danno alcun pensiero, capaci come sono, per effetto di quella loro sapienza che mescola insieme e confonde ogni cosa, di piacere ugualmente a se stessi; ma tu, se davvero sei filosofo, credo farai come io ti suggerisco. —Verissimo dici, esclamarono insieme Simmia e Cebète.

 

ECH. E di certo avevano ragione, o Fedone: è una meraviglia a sentire con che lucidità, anche per chi abbia scarsa intelligenza, Socrate espose il suo pensiero. FED. Proprio così, o Echècrate; e così parve anche a tutti i presenti. ECH. E difatti anche a noi che non ci eravamo e che ascoltiamo ora soltanto. E che disse dopo di ciò? FED. Quando, per quello che mi rammento, gli fu consentito codesto, e si era tutti d’accordo che in corrispondenza di ogni cosa esiste un’idea, e che tutte le cose, in quanto partecipano delle idee, appunto da esse prendono il loro nome; dopo di ciò egli domandò: —Se dunque, disse, tu ragioni così, quando affermi che Simmia è più grande di Socrate e più piccolo di Fedone, non ammetti allora che in Simmia ci sono tutt’e due insieme queste qualità, grandezza e piccolezza? —Sì, certo. —Ma in realtà, egli soggiunse, quando dici che Simmia è più grande di Socrate, sei tu d’accordo che la verità vera non è precisamente così come apparisce dalla espressione verbale ? e che infatti Simmia non già per sua propria natura è più grande, cioè in quanto è Simmia, bensì a causa della grandezza che si trova ad avere; e, d’altra parte, che è più grande di Socrate, non già perché Socrate è Socrate, ma solo perché Socrate ha la piccolezza in relazione alla grandezza di Simmia? —È vero. —E ancora, sei d’accordo che Simmia è superato da Fedone non già perché Fedone è Fedone, ma perché Fedene ha la grandezza rispetto alla piccolezza di Simmia ? — Sta bene. —Così dunque Simmia ha nome di esser piccolo e grande al tempo stesso perché si trova nel mezzo tra Fedone e Socrate; e alla grandezza dell’uno sottopone, perché la superi, la piccolezza propria, e presenta all’altro la propria grandezza che supera la piccolezza di quello. E aggiunse, sorridendo:—Ho l’aria di parlare come un estensore di contratti: ma comunque, tu vedi, la cosa è proprio così com’io dico. Cebète assentì. —E parlo in questo modo perché desidero tu venga nella stessa persuasione mia. Ora a me pare che non solo la grandezza per se medesima non voglia mai esser grande e piccola al medesimo tempo, ma altresì la grandezza che è in noi non voglia mai accogliere la piccolezza e tanto meno esserne superata: e allora delle due l’una, o fugge e cede il posto, quando il suo contrario, la piccolezza, le si avvicina, o addirittura, quella sopravvenendole, perisce; ma di restar ferma al suo posto e ricevere in sé la piccolezza ed esser diversa da ciò che era prima, questo non vuole assolutamente. Allo stesso modo che io, Socrate, se in un dato momento mi sono fermato ad accogliere la piccolezza, pur rimanendo quello che sono, ecco che io, lo stesso Socrate di prima, sono piccolo, ma quel che già era grande non può tollerare di essere piccolo: e così anche il piccolo che è in noi non vorrà mai né diventare né esser grande; e in generale nessuno dei contrari può tollerare di divenire o essere il suo stesso contrario restando contemporaneamente quello che era prima; e, se un caso simile gli accade, o se ne va o perisce... — Mi pare proprio che sia così, disse Cebète.

LI. E uno dei presenti, non ricordo bene chi fosse, udito ciò, disse: —Ma nei nostri ragionamenti di prima non s’era tutti d’accordo a dire proprio l’opposto di quel che si dice ora, e cioè che dal piccolo si genera il grande e dal grande il piccolo, e che insomma la generazione dei contrari avviene in questo modo, i contrari dai loro contrari ? E ora mi pare si dica che codesto non potrà essere mai. E Socrate, vòlto il capo e udito colui,—Bravo, disse, che te ne sei rammentato! Se non che tu non pensi alla differenza tra quel che si dice ora e quello che si diceva prima. Prima si diceva che da cosa contraria nasce cosa contraria; e ora si dice che il contrario in sé non può mai divenir contrario a se stesso, né quello ch’è in noi né quello che è nella natura. Allora, amico mio, si ragionava delle cose che hanno in sé i contrari e alle quali diamo nome dal nome di essi contrari; ora si ragiona dei contrari in sé, dei quali, in quanto sono nelle cose, le cose nominate prendono il nome. E sono appunto questi contrari in sé che noi riteniamo non vorranno mai accettare di generarsi gli uni dagli altri. E insieme, vòlti gli occhi a Cebète, disse: — Che forse, o Cebète, anche te turba qualcuna delle obiezioni che disse costui? —No, rispose Cebète; per codesto, ora, non sono turbato: ma non voglio dire che parecchi dubbi non mi turbino tuttavia. —Su questo dunque, riprese Socrate, senz’altro, siamo tutti d’accordo: che non mai il contrario sarà contrario di se medesimo. —Perfettamente, disse Cebète.

 

LII. —E ora, disse, vedi un po’ se anche su questo non sei d’accordo con me. C’è qualche cosa che tu chiami caldo e qualche cosa freddo? —Certo. —E sono lo stesso che neve e fuoco? —Oh no, non dico codesto. —Dunque altra cosa dal fuoco, il caldo; e altra cosa dalla neve, il freddo. —Sì. —Ma di questo, credo, sei persuaso di certo, che giammai la neve, che realmente sia neve, ricevendo in sé, come dianzi dicevamo, il caldo, possa seguitare a essere quello che era prima, cioè neve, e insieme caldo; bensì, avvicinandosele il caldo, o si trarrà indietro da esso o perirà. —Sta bene. —E così pure il fuoco, avvicinandoglisi il freddo, o si ritirerà o perirà; e non si darà mai ch’esso tolleri, ricevendo in sé il freddo, di seguitare a essere quello che era, cioè fuoco e  insieme freddo. —Verissimo, disse. —Or dunque avviene, riprese Socrate, per talune cose di questo genere, che non solamente l’idea in sé abbia diritto al suo proprio nome in perpetuo, ma anche abbia diritto a codesto nome qualche altra cosa che non è propriamente lo stesso che quell’idea; ma ha sempre di quell’idea la forma ogni volta che comparisce nel mondo. In quest’altro esempio ti riuscirà forse più chiaro ciò che intendo dire. II dispari ha diritto d’aver sempre questo nome di dispari che gli diamo ora, o no? —Senza dubbio. — Ed esso solo di tutte le cose che esistono—perché questo è il problema che io pongo—oppure anche qualche cos’altro  che non è propriamente lo stesso che il dispari, e tuttavia bisogna chiamarlo, oltre che col suo proprio nome, anche con questo di dispari, perché è di tale natura che dal dispari non si scompagna mai? Intendo dire con ciò quel che può capitare, per esempio, al tre e ad altre cose molte. Vedi il caso del tre. Non ti pare che il tre abbia da esser chiamato sempre, oltre che col suo proprio nome di tre, anche con quello di dispari, sebbene non siano la stessa cosa il dispari e il tre? Eppure sono di tal natura e il tre e il cinque e insomma tutta la metà della serie dei numeri, che, pur non essendo ciascuno di essi lo stesso che il di spari, sempre tuttavia ciascuno di essi è dispari. E similmente il due e il quattro e tutta l’altra fila dei numeri, pur non essendo ciascuno lo stesso che il pari, tuttavia ciascuno di essi è sempre pari. Sei d’accordo con me, o no? —E come no?, disse. —E dunque sta bene attento, soggiunse, a quello che voglio chiarire. Ed è questo: che cioè, evidentemente, non solo codesti contrari in sé non si ricettano l’un l’altro, ma anche tutte le cose le quali, pur non essendo contrarie l’una all’altra, hanno sempre in sé idee contrarie, anche queste, è chiaro, non ricevono in sé, nessuna, quell’idea la quale sia contraria o quella che è in loro; e anzi, questa sopravvenendo, o  periscono o si ritraggono. Non diremo che il tre sarà pronto a morire o a patire altra sorte qualsiasi, piuttosto che sopportare, seguitando a essere tre, di diventar pari? —Proprio così, disse Cebète. —Ma pure, disse Socrate, certamente il due non è contrario al tre. —No certo. —Dunque, non solamente le idee contrarie non sopportano che l’una sopravanzi l’altra, ma anche altre cose, quali esse siano, nessuna sopporta che sopravanzi su lei l’idea contraria a quella di cui essa partecipa. —Giustissimo, disse, questo che dici.

LIII. —E allora vuoi tu, diss’egli, che ci proviamo, se siamo buoni, a definire di che natura sono queste cose? —Bene, proviamoci. —Non saranno quelle, disse,  o Cebète, le quali, se un’altra cosa qualunque riesce a dominarle, sono costrette da codesta non solo ad assumere ciascuna l’idea propria di quella che la domina, ma anche quella di un dato contrario al contrario di cui dissi sopra —Come dici? —Né più né meno di quello che dicevamo ora. Tu capisci bene di certo che, qualunque cosa l’idea del tre riesca a dominare, ella deve necessariamente non solo essere tre ma anche dispari. — D’accordo. —E a una cosa come questa del tre, naturalmente, non potrà giungere l’idea contraria a quella, quale si sia, che informa e produce il tre. —No, certo. —E non era l’idea del dispari che produceva il tre? —Sì. —E non è contraria a questa l’idea del pari? —Sì. —Dun que al tre non giungerà mai l’idea del pari. —Non c’è dubbio. —Ciò significa che il tre non è partecipe all’idea del pari. —Non è partecipe. —Impari quindi è l’idea del tre. —Sì. —Quello dunque ch’io dicevo di definire, quali cose, pur non essendo contrarie a un dato contrario, tuttavia non ricevono esso contrario; come, nell’esempio citato ora, il tre, pur non essendo contrario al pari, non perciò lo riceve perché porta sempre sopra di sé il contrario a esso pari, e così il due porta sempre il contrario al dispari, e il fuoco al freddo, e altre cose in numerevoli;—vedi ora dunque se accetti questa definizione: e cioè che non solo il contrario non ammette il suo contrario, ma anche quella qualunque cosa la quale porti seco, dovunque vada, un suo contrario, codesta cosa, dico, che porta seco un suo contrario, non potrà mai accogliere in sé il contrario del contrario che da lei è portato. E ancora, vedi di ricordarti. Non è male sentir parlare più volte di una cosa. II cinque non riceverà l’idea del pari, né quella del dispari il dieci ch’è doppio del cinque. È pur vero che questo doppio anche per se medesimo è contrario a un’altra cosa, ma al tempo stesso non riceverà  mai l’idea del dispari. E così una frazione come il 3/2 e tutte le altre di questo genere come 1/2 che hanno per denominatore il 2, non ricevono l’idea dell’intero; e nemmeno la ricevono frazioni come 1/3 e tutte le altre dello stesso genere che hanno per denominatore il 3. Mi segui? sei anche tu di questa mia opinione? —Ti seguo, disse, e sono della tua stessissima opinione.

LIV. —E ancora, disse, da capo, rispondi: ma non mi rispondere con la stessa parola con cui io ti interrogo; Prendi esempio da me. Dico questo perché, oltre quella tal risposta sicura che dicevo prima dal ragionamento che s’è fatto ora vedo che ne vien fuori un’altra egualmente sicura. Dunque, se tu non mi domandi: Quel corpo sarà caldo in cui si generi... che cosa?, io non ti darò quella tal risposta sicura ma stolta, quello in cui si generi calore, perche, da ciò che s’è detto ora, ne viene fuori un’altra più sottile, e cioè, quello in cui si generi fuoco. E anche, se tu mi domandi: Quel corpo sarà ammalato in cui si generi che cosa?, io non ti risponderò, quello in cui si generi malattia, bensì, quello in cui si generi febbre. E ancora se mi domandi: Quel numero sarà dispari in cui si generi.. che cosa?, io non ti risponderò, quello in cui si generi disparità, bensì, quello in cui si generi mònade; e così via. Vedi ora se hai capito bene quello che voglio dire. —Ma benissimo, disse. —E allora, disse, rispondi: Vivo sarà quel qualunque corpo in cui si generi... che cosa? —Quello in cui l’anima si generi, disse. —Ed  è sempre così? —E come no?, rispose. —Dunque l’anima, qualunque cosa ella investa di sé, sempre dove entra arreca vita? — Sempre, disse: sicuramente. —E dimmi, alla vita c’è qualche cosa contrario, o non c’è? —C’è, disse. —E che cos’è? —Morte. —Dunque l’anima non sarà mai che possa accogliere in sé il contrario di ciò che sempre ella reca seco; secondo s’è rimasti d’accordo dopo quel che dicemmo. —Perfettamente, disse Cebète.

LV. —Ebbene, ciò che non può ricevere l’idea del pari come lo chiamavamo or ora? —Impari, disse. —E ciò che non può ricevere giustizia [...]? — Ingiusto. —Sta bene. E ciò che non può ricevere morte come lo chiamiamo? —Immortale, disse. —Dunque l’anima non riceve morte? —No. —Allora l’anima è immortale. —Immortale. —Bene, disse. Questo per ora dobbiamo dire ch’è dimostrato: che ne pare a te? —Sì, o Socrate; e in maniera soddisfacente. —Or via, soggiunse, o Cebète: se l’impari fosse di necessità  imperituro, potrebbe il tre esser altro che imperituro? —Certamente. —E se anche il non-caldo fosse di necessità imperituro, quando alcuno avvicinasse caldo a neve, la neve in quanto neve, non scapperebbe via intatta e senza liquefarsi? Perché di certo né potrebbe perire e nemmeno restare ferma al suo posto per ricevere il calore. - Verissimo, disse. —Allo stesso modo, dico, se anche il non-freddo fosse imperituro, quando sul fuoco sopravvenisse alcunché di freddo, non mai esso si spegnerebbe e nemmeno perirebbe, ma se n’andrebbe via sano e salvo. —Necessariamente, disse. —O dunque,  non bisognerà dire il medesimo anche dell’immortale? Se è vero che l’immortale è anche imperituro, non sarà possibile all’anima, quando morte le sopravvenga, di perire: perché l’anima, è chiaro da ciò che s’è detto, non riceverà morte, né sarà mai anima morta; allo stesso modo che il tre, dicevamo, non sarà pari, e tanto meno il dispari; né mai, si capisce, sarà freddo il fuoco, e tanto meno il calore che è nel fuoco. “Ma che cosa impedisce, dirà qualcuno, non già che pari diventi dispari, come s’è pur convenuto, sopravvenendogli il pari, ma che, morendo  esso dispari, in suo luogo si generi il pari?”. A chi ci dicesse questo, noi non avremmo da opporgli che il dispari non perisce; perché l’impari non è imperituro. Che se invece avessimo convenuto che fosse, allora assai facilmente potremmo opporre che, sopravvenendogli il pari, il dispari e cosi anche il tre se ne vanno via soltanto. E del fuoco e del caldo e di ogni altra cosa potremmo sostenere lo stesso. O no? —Certamente. —E allora anche qui, su questa questione dell’immortale, se siamo d’accordo che l’immortale è anche imperituro, I’anima, oltre che essere immortale, sarà anche imperitura. E se no, bisognerà ricorrere ad altro ragionamento. —Ma non bisogna affatto, disse, almeno su questo: difficilmente infatti si potrebbe dire di un’altra cosa che non ammette corrompimento, se poi ha da ammettere corrompimento l’immortale che è eterno.