XLVIII. — Dopo ciò, egli
disse, stanco com’ero di tali indagini, credetti bene guardarmi da questo, che
cioè non mi capitasse come a coloro che durante una ecclissi contemplano e
indagano il sole: alcuni infatti ci perdono gli occhi, se non si limitano a
considerarne l’immagine riflessa
nell’acqua o in qualche cos’altro di simile. E così pensai anch’io, e
temetti mi s’accecasse del tutto l’anima a voler guardare direttamente le cose
con gli occhi e a cercare di coglierle con ciascuno dei sensi. E mi parve che
mi bisognasse rifugiarmi nei concetti, e considerare in essi la realtà delle
cose esistenti. Sebbene forse, in certo senso,
la similitudine non si addice. Perché io non posso ammettere che chi
considera le cose nei loro concetti le vegga in immagine più di chi le consideri
nella loro realtà. Io mi misi dunque per questa via; e, assumendo caso per caso
come vero quel concetto che io giudicassi più sicuro e più saldo, le cose che a
codesto concetto mi parevano accordarsi, queste ritenevo come vere, sia
rispetto alla causa sia rispetto a tutte le altre questioni; quelle che no,
ritenevo come non vere. Ma voglio chiarirti meglio ciò che intendo di dire.
Perché penso che tu ora non capisca. —No, disse Cebète, non troppo.
XLIX. —Eppure, rispose
Socrate, questo ch’io dico non è niente di nuovo, ma quello sempre che già
altre volte e anche nel precedente ragionamento non ho mai cessato di dire. E
ora son qui per tentare di dimostrarti qual è questa specie di causa che mi
sono costruita, e torno di nuovo a quei punti dei quali già fu discorso più
volte, e ricomincio da quelli. Poniamo dunque che esista un bello in sé, un
buono in sé, un grande in sé, e così via: le quali cose se tu mi concedi e
ammetti che esistano realmente, io ho speranza, movendo da queste, di scoprire
la vera causa e di dimostrarti che l’anima è immortale. —Sta bene, disse Cebète: fa pur conto ch’io ti
conceda ciòe affretta, ti prego, le tue conclusioni. —Esamina dunque, egli
disse, quello che da codesti punti consegue, se anche a te pare lo stesso che a
me. A me pare infatti che, se c’è cosa bella all’infuori del bello in sé, per
nessuna altra ragione sia bella e non perché partecipa di codesto bello in sé.
E così dico, naturalmente, di tutte le altre cose. Consenti tu che la causa sia
questa? —Consento, rispose. —E allora, riprese Socrate, io non capisco più e
non posso più riconoscere le altre cause, quelle dei dotti. E se uno mi dice
perché una qualunque cosa è bella, sostenendo che è bella o perché ha un colore
brillante o perché ha una sua figura o comunque per altre proprietà dello
stesso genere, ebbene, io tutte codeste altre cause le lascio perdere, perché
in esse tutte mi confondo; e mi tengo fermo a questa mia, sia pur ella semplice
e grossolana e forse anche sciocca: e cioè che niente altro fa sì che quella
tal cosa sia bella se non la presenza o la comunanza di codesto bello in sé, o
altro modo qualunque onde codesto bello le aderisce. Perché io non insisto
affatto su questo modo, e dico solo che tutte le cose belle sono belle per il
bello. E questo pare a me che sia l’argomento più sicuro per rispondere a me
stesso e ad altri; e, tenendomi stretto
a questo, penso che non potrò mai cadere, e che per me e per ogni altro la cosa
più sicura da rispondere sia questa, che le cose belle sono belle per il bello.
O non pare anche a te così? —Mi pare.
—E non ti pare dunque che per
la grandezza le cose grandi siano grandi e le maggiori maggiori, e per la
piccolezza le cose minori minori? —Sì. —Se dunque uno ti dicesse che un tale è
più grande di un altro per il capo, e che il più piccolo dei due è più piccolo egualmente per il capo, tu non
potresti accettare neppure codesto: e protesteresti vivamente che tu non
intendi dire altro se non che il più grande, qualunque cosa sia più grande di
un’altra, per niente altro è più grande se non per la grandezza, e che questa
appunto è la causa per cui è più grande, la grandezza; e tutto ciò che è più
piccolo per niente altro è più piccolo se non per la piccolezza; e che questa
appunto è la causa per cui è più piccolo: la piccolezza. Infatti, se tu dicessi
che per il capo uno è più grande di un altro e quest’altro più piccolo, avresti
paura, credo, ti si facessero contro queste due obiezioni: primo, che per la
stessa cosa il maggiore è maggiore e il
minore minore; e poi, che il più grande è più grande per il capo che è
cosa piccola; e riconosceresti che è in verità mostruoso che uno sia grande per
cosa che è piccola. Non è vero che avresti paura di tali obiezioni? —E Cebète,
ridendo: Sì, certo, disse. — E anche, soggiunse, non avresti paura di dire che
il dieci è più dell’otto per il due, e che proprio questo due è la causa per
cui il dieci supera l’otto; e non invece che è per la pluralità, e che appunto
questa pluralità è la causa del suo essere più? e che il bicùbito è maggiore
del cùbito per la metà, e non invece per la grandezza? Si tratta sempre, mi
pare, della stessa paura. —Di certo, disse. —E ancora, se si aggiunge uno a
uno, non avresti ritegno a dire che sia codesta addizione la causa del diventar
due, e, se si divide uno in due, che la
causa sia codesta divisione? E dirai alto e forte che tu non sai come
altrimenti una data cosa si generi se non in quanto viene a partecipare di
quella essenziale realtà che è propria di quella data idea di cui ella
partecipa; e così, nei casi sopra detti, tu non hai altra causa da addurre di
codesto diventar due se non la partecipazione alla dualità, e che di questa
dualità bisogna partecipino le cose che sono per diventar due, e della unità la
cosa che è per diventar uno; e le divisioni e le addizioni e tutte le altre
sottigliezze di questo genere le manderai a spasso, lasciando ai più sapienti
di te che se ne servano nelle loro risposte: ma tu, per paura,
come si dice, della tua propria ombra e della tua ignoranza, ti terrai stretto
all’appoggio sicuro di codesta ipotesi e risponderai in questo modo.
Che se poi qualcuno si ostini
contro codesta ipotesi per se sola, lo lascerai dire e non risponderai se prima
tu non abbia esaminato le conseguenze che da quella risultano, e cioè se ti
pare siano d’accordo fra loro o no; e, quando ti bisogni dar conto di codesta
ipotesi in sé, allora procederai allo stesso modo ponendo a sua volta un’altra
ipotesi, quella che ti sembri via via la migliore fra quelle che sono più in
alto e cioè di carattere più universale, fino a che tu non giunga a qualche
cosa che sia sufficiente per se
medesimo; e così non ti impiglierai nella confusione degli antilogici [=
sofisti] , i quali mettono in discussione contemporaneamente il punto di
partenza e le sue conseguenze, se veramente vuoi scoprire delle cose la verità.
Perché costoro, mi sembra, della verità non fanno alcun conto né si danno alcun
pensiero, capaci come sono, per effetto di quella loro sapienza che mescola
insieme e confonde ogni cosa, di piacere ugualmente a se stessi; ma tu, se
davvero sei filosofo, credo farai come io ti suggerisco. —Verissimo dici,
esclamarono insieme Simmia e Cebète.
ECH. E di certo avevano
ragione, o Fedone: è una meraviglia a sentire con che lucidità, anche per chi
abbia scarsa intelligenza, Socrate espose il suo pensiero. FED. Proprio così, o
Echècrate; e così parve anche a tutti i presenti. ECH. E difatti anche a noi
che non ci eravamo e che ascoltiamo ora soltanto. E che disse dopo di ciò? FED.
Quando, per quello che mi rammento, gli fu consentito codesto, e si era tutti
d’accordo che in corrispondenza di ogni cosa esiste un’idea, e che tutte le
cose, in quanto partecipano delle idee, appunto da esse prendono il loro nome;
dopo di ciò egli domandò: —Se dunque, disse, tu ragioni così, quando affermi
che Simmia è più grande di Socrate e più piccolo di Fedone, non ammetti allora
che in Simmia ci sono tutt’e due insieme queste qualità, grandezza e
piccolezza? —Sì, certo. —Ma in realtà, egli soggiunse, quando dici che Simmia è
più grande di Socrate, sei tu d’accordo che la verità vera non è precisamente
così come apparisce dalla espressione verbale ? e che infatti Simmia non già
per sua propria natura è più grande, cioè in quanto è Simmia, bensì a causa
della grandezza che si trova ad avere; e, d’altra parte, che è più grande di
Socrate, non già perché Socrate è Socrate, ma solo perché Socrate ha la
piccolezza in relazione alla grandezza di Simmia? —È vero. —E ancora, sei
d’accordo che Simmia è superato da Fedone non già perché Fedone è Fedone, ma
perché Fedene ha la grandezza rispetto alla piccolezza di Simmia ? — Sta bene.
—Così dunque Simmia ha nome di esser piccolo e grande al tempo stesso perché si
trova nel mezzo tra Fedone e Socrate; e alla grandezza dell’uno sottopone, perché
la superi, la piccolezza propria, e presenta all’altro la propria grandezza che
supera la piccolezza di quello. E aggiunse, sorridendo:—Ho l’aria di parlare
come un estensore di contratti: ma comunque, tu vedi, la cosa è proprio così
com’io dico. Cebète assentì. —E parlo in questo modo perché desidero tu venga
nella stessa persuasione mia. Ora a me pare che non solo la grandezza per se
medesima non voglia mai esser grande e piccola al medesimo tempo, ma altresì la
grandezza che è in noi non voglia mai accogliere la piccolezza e tanto meno
esserne superata: e allora delle due l’una, o fugge e cede il posto, quando il
suo contrario, la piccolezza, le si avvicina, o addirittura, quella
sopravvenendole, perisce; ma di restar ferma al suo posto e ricevere in sé la
piccolezza ed esser diversa da ciò che era prima, questo non vuole
assolutamente. Allo stesso modo che io, Socrate, se in un dato momento mi sono
fermato ad accogliere la piccolezza, pur rimanendo quello che sono, ecco che
io, lo stesso Socrate di prima, sono piccolo, ma quel che già era grande non
può tollerare di essere piccolo: e così anche il piccolo che è in noi non vorrà
mai né diventare né esser grande; e in generale nessuno dei contrari può
tollerare di divenire o essere il suo stesso contrario restando
contemporaneamente quello che era prima; e, se un caso simile gli accade, o se
ne va o perisce... — Mi pare proprio che sia così, disse Cebète.
LI. E uno dei presenti, non
ricordo bene chi fosse, udito ciò, disse: —Ma nei nostri ragionamenti di prima
non s’era tutti d’accordo a dire proprio l’opposto di quel che si dice ora, e
cioè che dal piccolo si genera il grande e dal grande il piccolo, e che insomma
la generazione dei contrari avviene in questo modo, i contrari dai loro
contrari ? E ora mi pare si dica che codesto non potrà essere mai. E Socrate,
vòlto il capo e udito colui,—Bravo, disse, che te ne sei rammentato! Se non che
tu non pensi alla differenza tra quel che si dice ora e quello che si diceva
prima. Prima si diceva che da cosa contraria nasce cosa contraria; e ora si
dice che il contrario in sé non può mai divenir contrario a se stesso, né
quello ch’è in noi né quello che è nella natura. Allora, amico mio, si
ragionava delle cose che hanno in sé i contrari e alle quali diamo nome dal
nome di essi contrari; ora si ragiona dei contrari in sé, dei quali, in quanto
sono nelle cose, le cose nominate prendono il nome. E sono appunto questi
contrari in sé che noi riteniamo non vorranno mai accettare di generarsi gli
uni dagli altri. E insieme, vòlti gli occhi a Cebète, disse: — Che forse, o
Cebète, anche te turba qualcuna delle obiezioni che disse costui? —No, rispose
Cebète; per codesto, ora, non sono turbato: ma non voglio dire che parecchi
dubbi non mi turbino tuttavia. —Su questo dunque, riprese Socrate, senz’altro,
siamo tutti d’accordo: che non mai il contrario sarà contrario di se medesimo.
—Perfettamente, disse Cebète.
LII. —E ora, disse, vedi un
po’ se anche su questo non sei d’accordo con me. C’è qualche cosa che tu chiami
caldo e qualche cosa freddo? —Certo. —E sono lo stesso che neve e fuoco? —Oh
no, non dico codesto. —Dunque altra cosa dal fuoco, il caldo; e altra cosa
dalla neve, il freddo. —Sì. —Ma di questo, credo, sei persuaso di certo, che
giammai la neve, che realmente sia neve, ricevendo in sé, come dianzi dicevamo,
il caldo, possa seguitare a essere quello che era prima, cioè neve, e insieme
caldo; bensì, avvicinandosele il caldo, o si trarrà indietro da esso o perirà.
—Sta bene. —E così pure il fuoco, avvicinandoglisi il freddo, o si ritirerà o
perirà; e non si darà mai ch’esso tolleri, ricevendo in sé il freddo, di
seguitare a essere quello che era, cioè fuoco e insieme freddo. —Verissimo, disse. —Or dunque avviene, riprese
Socrate, per talune cose di questo genere, che non solamente l’idea in sé abbia
diritto al suo proprio nome in perpetuo, ma anche abbia diritto a codesto nome
qualche altra cosa che non è propriamente lo stesso che quell’idea; ma ha
sempre di quell’idea la forma ogni volta che comparisce nel mondo. In
quest’altro esempio ti riuscirà forse più chiaro ciò che intendo dire. II
dispari ha diritto d’aver sempre questo nome di dispari che gli diamo ora, o
no? —Senza dubbio. — Ed esso solo di tutte le cose che esistono—perché questo è
il problema che io pongo—oppure anche qualche cos’altro che non è propriamente lo stesso che il
dispari, e tuttavia bisogna chiamarlo, oltre che col suo proprio nome, anche
con questo di dispari, perché è di tale natura che dal dispari non si scompagna
mai? Intendo dire con ciò quel che può capitare, per esempio, al tre e ad altre
cose molte. Vedi il caso del tre. Non ti pare che il tre abbia da esser
chiamato sempre, oltre che col suo proprio nome di tre, anche con quello di
dispari, sebbene non siano la stessa cosa il dispari e il tre? Eppure sono di
tal natura e il tre e il cinque e insomma tutta la metà della serie dei numeri,
che, pur non essendo ciascuno di essi lo stesso che il di spari, sempre
tuttavia ciascuno di essi è dispari. E similmente il due e il quattro e tutta l’altra
fila dei numeri, pur non essendo ciascuno lo stesso che il pari, tuttavia
ciascuno di essi è sempre pari. Sei d’accordo con me, o no? —E come no?, disse.
—E dunque sta bene attento, soggiunse, a quello che voglio chiarire. Ed è
questo: che cioè, evidentemente, non solo codesti contrari in sé non si
ricettano l’un l’altro, ma anche tutte le cose le quali, pur non essendo
contrarie l’una all’altra, hanno sempre in sé idee contrarie, anche queste, è
chiaro, non ricevono in sé, nessuna, quell’idea la quale sia contraria o quella
che è in loro; e anzi, questa sopravvenendo, o
periscono o si ritraggono. Non diremo che il tre sarà pronto a morire o
a patire altra sorte qualsiasi, piuttosto che sopportare, seguitando a essere
tre, di diventar pari? —Proprio così, disse Cebète. —Ma pure, disse Socrate,
certamente il due non è contrario al tre. —No certo. —Dunque, non solamente le
idee contrarie non sopportano che l’una sopravanzi l’altra, ma anche altre
cose, quali esse siano, nessuna sopporta che sopravanzi su lei l’idea contraria
a quella di cui essa partecipa. —Giustissimo, disse, questo che dici.
LIII. —E allora vuoi tu,
diss’egli, che ci proviamo, se siamo buoni, a definire di che natura sono
queste cose? —Bene, proviamoci. —Non saranno quelle, disse, o Cebète, le quali, se un’altra cosa
qualunque riesce a dominarle, sono costrette da codesta non solo ad assumere
ciascuna l’idea propria di quella che la domina, ma anche quella di un dato
contrario al contrario di cui dissi sopra —Come dici? —Né più né meno di quello
che dicevamo ora. Tu capisci bene di certo che, qualunque cosa l’idea del tre
riesca a dominare, ella deve necessariamente non solo essere tre ma anche
dispari. — D’accordo. —E a una cosa come questa del tre, naturalmente, non
potrà giungere l’idea contraria a quella, quale si sia, che informa e produce
il tre. —No, certo. —E non era l’idea del dispari che produceva il tre? —Sì. —E
non è contraria a questa l’idea del pari? —Sì. —Dun que al tre non giungerà mai
l’idea del pari. —Non c’è dubbio. —Ciò significa che il tre non è partecipe
all’idea del pari. —Non è partecipe. —Impari quindi è l’idea del tre. —Sì.
—Quello dunque ch’io dicevo di definire, quali cose, pur non essendo contrarie
a un dato contrario, tuttavia non ricevono esso contrario; come, nell’esempio
citato ora, il tre, pur non essendo contrario al pari, non perciò lo riceve
perché porta sempre sopra di sé il contrario a esso pari, e così il due porta
sempre il contrario al dispari, e il fuoco al freddo, e altre cose in
numerevoli;—vedi ora dunque se accetti questa definizione: e cioè che non solo
il contrario non ammette il suo contrario, ma anche quella qualunque cosa la
quale porti seco, dovunque vada, un suo contrario, codesta cosa, dico, che
porta seco un suo contrario, non potrà mai accogliere in sé il contrario del
contrario che da lei è portato. E ancora, vedi di ricordarti. Non è male sentir
parlare più volte di una cosa. II cinque non riceverà l’idea del pari, né
quella del dispari il dieci ch’è doppio del cinque. È pur vero che questo
doppio anche per se medesimo è contrario a un’altra cosa, ma al tempo stesso
non riceverà mai l’idea del dispari. E
così una frazione come il 3/2 e tutte le altre di questo genere come 1/2 che
hanno per denominatore il 2, non ricevono l’idea dell’intero; e nemmeno la
ricevono frazioni come 1/3 e tutte le altre dello stesso genere che hanno per
denominatore il 3. Mi segui? sei anche tu di questa mia opinione? —Ti seguo,
disse, e sono della tua stessissima opinione.
LIV. —E ancora, disse, da
capo, rispondi: ma non mi rispondere con la stessa parola con cui io ti
interrogo; Prendi esempio da me. Dico questo perché, oltre quella tal risposta
sicura che dicevo prima dal ragionamento che s’è fatto ora vedo che ne vien
fuori un’altra egualmente sicura. Dunque, se tu non mi domandi: Quel corpo sarà
caldo in cui si generi... che cosa?, io non ti darò quella tal risposta sicura
ma stolta, quello in cui si generi calore, perche, da ciò che s’è detto ora, ne
viene fuori un’altra più sottile, e cioè, quello in cui si generi fuoco. E
anche, se tu mi domandi: Quel corpo sarà ammalato in cui si generi che cosa?,
io non ti risponderò, quello in cui si generi malattia, bensì, quello in cui si
generi febbre. E ancora se mi domandi: Quel numero sarà dispari in cui si generi..
che cosa?, io non ti risponderò, quello in cui si generi disparità, bensì,
quello in cui si generi mònade; e così via. Vedi ora se hai capito bene quello
che voglio dire. —Ma benissimo, disse. —E allora, disse, rispondi: Vivo sarà
quel qualunque corpo in cui si generi... che cosa? —Quello in cui l’anima si
generi, disse. —Ed è sempre così? —E
come no?, rispose. —Dunque l’anima, qualunque cosa ella investa di sé, sempre
dove entra arreca vita? — Sempre, disse: sicuramente. —E dimmi, alla vita c’è
qualche cosa contrario, o non c’è? —C’è, disse. —E che cos’è? —Morte. —Dunque
l’anima non sarà mai che possa accogliere in sé il contrario di ciò che sempre
ella reca seco; secondo s’è rimasti d’accordo dopo quel che dicemmo.
—Perfettamente, disse Cebète.
LV. —Ebbene, ciò che non può ricevere l’idea del pari come lo chiamavamo or ora? —Impari, disse. —E ciò che non può ricevere giustizia [...]? — Ingiusto. —Sta bene. E ciò che non può ricevere morte come lo chiamiamo? —Immortale, disse. —Dunque l’anima non riceve morte? —No. —Allora l’anima è immortale. —Immortale. —Bene, disse. Questo per ora dobbiamo dire ch’è dimostrato: che ne pare a te? —Sì, o Socrate; e in maniera soddisfacente. —Or via, soggiunse, o Cebète: se l’impari fosse di necessità imperituro, potrebbe il tre esser altro che imperituro? —Certamente. —E se anche il non-caldo fosse di necessità imperituro, quando alcuno avvicinasse caldo a neve, la neve in quanto neve, non scapperebbe via intatta e senza liquefarsi? Perché di certo né potrebbe perire e nemmeno restare ferma al suo posto per ricevere il calore. - Verissimo, disse. —Allo stesso modo, dico, se anche il non-freddo fosse imperituro, quando sul fuoco sopravvenisse alcunché di freddo, non mai esso si spegnerebbe e nemmeno perirebbe, ma se n’andrebbe via sano e salvo. —Necessariamente, disse. —O dunque, non bisognerà dire il medesimo anche dell’immortale? Se è vero che l’immortale è anche imperituro, non sarà possibile all’anima, quando morte le sopravvenga, di perire: perché l’anima, è chiaro da ciò che s’è detto, non riceverà morte, né sarà mai anima morta; allo stesso modo che il tre, dicevamo, non sarà pari, e tanto meno il dispari; né mai, si capisce, sarà freddo il fuoco, e tanto meno il calore che è nel fuoco. “Ma che cosa impedisce, dirà qualcuno, non già che pari diventi dispari, come s’è pur convenuto, sopravvenendogli il pari, ma che, morendo esso dispari, in suo luogo si generi il pari?”. A chi ci dicesse questo, noi non avremmo da opporgli che il dispari non perisce; perché l’impari non è imperituro. Che se invece avessimo convenuto che fosse, allora assai facilmente potremmo opporre che, sopravvenendogli il pari, il dispari e cosi anche il tre se ne vanno via soltanto. E del fuoco e del caldo e di ogni altra cosa potremmo sostenere lo stesso. O no? —Certamente. —E allora anche qui, su questa questione dell’immortale, se siamo d’accordo che l’immortale è anche imperituro, I’anima, oltre che essere immortale, sarà anche imperitura. E se no, bisognerà ricorrere ad altro ragionamento. —Ma non bisogna affatto, disse, almeno su questo: difficilmente infatti si potrebbe dire di un’altra cosa che non ammette corrompimento, se poi ha da ammettere corrompimento l’immortale che è eterno.