&             Platone, Apologia di Socrate

 

[ (17a) Sentite le accuse rivoltegli da Anìto, Melèto e Licòne, Socrate fa la propria difesa (apologia), precisando che parlerà come al suo solito, senza pretese retoriche ma secondo verità.]

 

(19a) Riprendiamo dunque da principio: quale è l'accusa da cui è nata (b) contro di me la calunnia, in base alla quale anche Melèto mi ha intentato questo processo. Ebbene, che cosa dicevano i miei calunniatori? [...] "Socrate è colpevole, in quanto indaga le cose che stanno sottoterra e quelle che stanno in cielo, e cerca di far risultare più forte la ragione più debole, (e) e queste cose insegna anche agli altri". Di questo tenore è l'accusa che mi fanno. Sono le cose che avete potuto vedere nella commedia di Aristofane: un Socrate che si fa portare in giro a mezz'aria, e dice che cammina sulle nuvole e una quantità di altre sciocchezze; tutte cose di cui io non m'intendo né molto né poco.

E non dico ciò per disprezzo di una tale scienza, posto che di tale scienza vi siano scienziati; che non debba attirarmi da Melèto anche un'accusa di tal genere. Dico solo che di queste cose, o cittadini di Atene, io non faccio assolutamente ricerca. [...] (d) E se poi avete sentito dire da qualcuno che io cerco di educare uomini e che chiedo denaro, (e) neanche questo è vero. In effetti, in fondo nemmeno ciò mi sembra riprovevole, se uno è capace di educare uomini come fanno Gorgia di Leontini, Prodico di Ceo e Ippia di Elide. Essi vanno per le città, e persuadono i giovani ‑ che potrebbero pur frequentare senza spendere chiunque dei concittadini (20a) ‑ a lasciare la compagnia di quelli e a stare invece con loro a pagamento, ed essendo loro grati per giunta. (c) Anch'io ne avrei vanto e orgoglio, se sapessi far di queste cose; ma il fatto è che tali cose, cittadini di Atene, proprio non le so.

A questo punto qualcuno potrebbe osservarmi: "Ma allora, Socrate, di cos'è che ti occupi? E da dove ti sono venute queste calunnie?" [...] (d) Cittadini di Atene, è vero: non per altro mi sono fatto questa rinomanza se non per una certa mia sapienza. Ma qual è questa sapienza? Quella che io vorrei dire una sapienza umana. Di questa, in effetti, può darsi che io sia sapiente. Quei tali invece di cui parlavo poco fa (e), o saranno sapienti di una sapienza superiore a quella umana, o io non so che dire: certo, questa sapienza io non la conosco; e chi dice che la conosco, mente, e lo dice per calunniarmi. [...] Della mia sapienza, se davvero lo è e quale che sia, io chiamerò a testimone davanti a voi il dio di Delfi.

Voi di certo avete conosciuto Cherefònte: (21a) fu mio compagno dalla giovinezza e vicino al vostro partito popolare; con voi venne nell'ultimo esilio e coli voi ritornò. Ora, sapete che tipo d'uomo era Cherefònte, e come risoluto in ogni cosa che intraprendeva. Ebbene: un giorno egli andò a Delfi, e ardì chiede all'oracolo se c'era qualcuno più sapiente di me; e la Pizia rispose che più sapiente di me non c'era nessuno. Su ciò potrà testimoniare suo fratello, che è qui; perché Cherefònte è morto. (b) Udita la risposta dell'oracolo, mi misi a riflettere tra me: "Che cosa mai vuol dire il dio? E a che cosa allude il suo enigma? Io infatti, per me, ho chiara coscienza di non essere sapiente, né molto né poco. Cosa vuol dire dunque il dio, affermando che io sono il più sapiente degli uomini? Certo egli non mente, perché il dio non può mentire". E a lungo fui incerto su ciò che intendesse dire.

Alla fine, pur a fatica, mi misi a farne ricerca, in questo modo. Andai da uno di quelli che hanno fama di essere sapienti, pensando (e) che solo così avrei potuto smentire il vaticinio e opporre all'oracolo: "Ecco, questi è più sapiente di me, e tu dicevi che ero io". Non c'è bisogno che vi dica il nome, o Ateniesi; vi basti che era uno dei nostri uomini politici. Ebbene, esaminandolo e discutendo con lui, mi parve sì che sembrasse sapiente a molti e soprattutto a se stesso, ma in realtà non lo fosse; e cercai di dimostrarglielo, che credeva di essere sapiente, ma invece non lo era. (d) La conseguenza fu che mi feci nemici non solo lui, ma anche molti di coloro che erano presenti. Andandomene, dovetti concludere che, in confronto a quest'uomo, ero più sapiente io. Poteva darsi, infatti, che nessuno dei due sapesse niente di buono né di bello: ma costui credeva di sapere e non sapeva, io invece non sapevo ma neppure credevo di sapere; e per questa piccola cosa almeno mi parve di essere più sapiente di quell'uomo. [...]

(22e) Da questa ricerca, cittadini di Atene, (23a) mi vennero molte inimicizie, molto pericolose e gravi, e da esse molte calunnie, fra cui la fama di essere sapiente. Ogni volta che discutevo, infatti, quelli che erano presenti credevano che io fossi sapiente in quelle cose nelle quali mi avveniva di confutar l'altro. Ma la cosa sta diversamente, o cittadini: che in realtà sapiente è solo il dio, e il suo oracolo questo volle dire: che poco o nulla vale la sapienza dell'uomo. Egli infatti sembra riferirsi proprio a me Socrate, (b) ma in realtà si serve del mio nome come di un esempio, come se dicesse: "O uomini, sapientissimo fra voi è chi, come Socrate, si è reso conto che la sua sapienza non vale nulla". Appunto per questo ancora oggi io vado attorno cercando e indagando, secondo la parola del dio, se ci sia qualcuno dei cittadini e degli stranieri che io possa ritenere sapiente. E non trovandolo, vengo così in soccorso al dio. [...]

(28b) A questo punto qualcuno potrebbe forse dirmi: "Ma allora, o Socrate, non ti vergogni d'esserti dedicato a un'attività a causa della quale ora sei in pericolo di morte?" A questi io potrei fare questo ragionamento: "Non dici bene, amico, se pensi che un uomo, il quale sia capace di qualche bene, anche piccolo, debba calcolare anche i rischi di vita o di morte, e non debba invece considerare solo questo, se fa cose giuste o ingiuste e se le sue sono azioni da uomo buono o da uomo cattivo. [...] (d) Così dev'essere, cittadini d'Atene, secondo verità: nel posto in cui uno pone se stesso, considerandolo il migliore, o in cui sia stato messo da chi comanda, in quel posto, io credo, deve restare e affrontare i pericoli, e non far conto della morte né di altro, se non del disonore. Per questo, cittadini (e) d'Atene, a Potidea e ad Anfipoli e a Delio, quando i comandanti da voi eletti mi assegnarono il posto, io vi rimasi e corsi pericolo di morire.

Sarebbe ora una condotta ben strana la mia, se il posto che il dio mi ha assegnato, almeno come io ho inteso e creduto, di vivere filosofando e sottoponendo ad esame me stesso e gli altri, questo posto io, per paura della morte (29a) o di altro, lo avessi abbandonato. Sarebbe davvero condotta ben strana; e allora davvero si avrebbe ragione a portarmi in tribunale come un empio che non crede agli dèi, dal momento che disubbidisco all'oracolo, ho paura della morte e credo di essere sapiente, mentre non lo sono. Avere paura della morte infatti, o cittadini, non è altro che credere d'essere sapiente, ma in realtà non esserlo, perché è credere di sapere quello che non si sa. [...] (b) E dunque, davanti a mali che so essere davvero mali non sarà mai che io tema e fugga quelli che io non so se per caso non siano dei beni.

Perciò, mettiamo che (c) ora voi [...] mi diceste: "O Socrate, noi non ascolteremo Anìto e ti lasceremo andare, a questa condizione però, che tu non occupi più il tuo tempo in tali ricerche, e non faccia più filosofia; (d) e se sarai colto a far ancora queste cose, morirai", [...] ebbene, io vi darei questa risposta: "O concittadini di Atene, io vi sono grato e vi voglio bene; ma ubbidirò al dio piuttosto che a voi: e finché avrò fiato e ne sarò in grado, io non smetterò mai di filosofare e di esortarvi e di ammonirvi, sempre, chiunque di voi incontri, parlandogli come il mio solito: ‑ Ottimo amico, tu che sei di Atene, la città più grande e più famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di darti pensiero delle ricchezze, per ammassarne quante più puoi, (e) e della fama e dell'onore, e non della sapienza e della verità e della tua anima, perché diventi il più possibile buona?"

E se qualcuno di voi dirà che non è vero, e che se ne dà pensiero, non lo lascerò andare senz'altro, né me ne andrò io, ma lo interrogherò, lo sottoporrò a esame e lo confuterò; e se mi sembrerà che non possieda virtù, (30a) se non a parole, lo svergognerò, perché dà poca importanza alle cose che valgono di più, e più importanza alle cose che valgono poco. E questo farò con chiunque mi capiti, giovane o vecchio, straniero o cittadino, ma più con voi, cittadini, che mi siete più vicini per stirpe; perché questo, voi lo sapete, me lo comanda il dio; e io credo che non ci sia per voi, nella città, bene maggiore di questo mio servizio al dio. [...] (b) Perciò, cittadini di Atene, che voi ascoltiate Anìto o no, che mi lasciate andare o no, credete pure (c) che io non farò mai in altro modo, neanche se dovessi morire molte volte.

Siatene persuasi: se condannerete a morte me, che sono appunto quale vi dico, non farete a me male maggiore che a voi stessi. A me Anito e Melèto non faranno alcun male, e nemmeno potrebbero: non credo infatti possibile (d) che chi è migliore riceva male da chi è peggiore. Anìto potrà, sì, condannarmi a morte, cacciarmi in esilio, spogliarmi dei diritti civili: cose che lui e altri crederanno grandi mali, ma non io. Io credo che sia un male molto più grande fare ciò che ora fa lui, cioè cercar di mandare a morte un uomo ingiustamente. Perciò, cittadini di Atene, io sono ben lontano dal parlare ora in mia difesa, come qualcuno potrebbe pensare; parlo invece a vostro vantaggio, perché condannandomi non pecchiate (e) contro il dono che il dio vi ha dato. Se mi condannerete a morte, infatti, non vi sarà facile trovare un altro che come me ‑non vi sembri ridicolo dirlo‑ sia stato messo dal dio ai fianchi della città come, ai fianchi di un cavallo di razza, grande ma proprio per la sua grandezza un po' lento e bisognoso di essere pungolato, un tafàno. Proprio così mi sembra che il dio mi abbia messo ai fianchi della città: per stimolarvi, persuadervi e rampognarvi, uno per uno, (31a) standovi addosso tutto il giorno, dappertutto.

 

[Riconosciuto colpevole dal tribunale del popolo, Socrate, come prevede la legge, propone la pena che, secondo lui, corrisponde alla sua colpa.]

 

(36d) Allora, che pena merito di ricevere, se sono un uomo di questo genere? Un bene, o cittadini di Atene, se mi si deve dare quello che veramente merito, e che a me si conviene. E che cosa conviene a un uomo che è povero, che è vostro benefattore, e che chiede solo di aver tempo e agio per potervi educare? Nulla di più conveniente, o cittadini, che un tal uomo sia nutrito a pubbliche spese nel Pritanèo; molto più di quanto si addica a uno di voi che con un cavallo, una biga o una quadriga abbia ottenuto la vittoria nei giochi di Olimpia. Questi infatti vi fa credere felici, io invece (e) vi faccio essere felici; lui poi non ha bisogno che gli si dia da vivere, io ne ho bisogno. Pertanto, se devo chiedere secondo il giusto ciò che merito, questo io chiedo: (37a) di essere mantenuto a pubbliche spese nel Pritanèo.

(e) A questo punto forse qualcuno potrebbe dirmi: "Ma. in silenzio e quieto, o Socrate, non saresti capace di vivere, una volta andato via di qui?". Proprio questa è la cosa più difficile da convincere alcuni di voi. Se infatti io vi dicessi che ciò significherebbe disubbidire al dio e che perciò non sarebbe possibile (38a) per me vivere quieto, voi non mi credereste, e direste che faccio dell'ironia. Se poi vi dicessi che proprio questo è il bene più grande per l'uomo, ragionare ogni giorno sulla virtù e sugli altri argomenti sui quali mi avete udito discutere e sottoporre a esame me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerche non è degna per l'uomo di essere vissuta; ebbene, se vi dicessi questo, mi credereste ancor meno. Eppure, le cose stanno proprio come vi dico, o cittadini; ma persuadervene non è facile.

 

[Pronunciata la condanna a morte, Socrate ne commenta il valore morale e politico.]

 

(e) Per non voler attendere un po' di tempo, cittadini di Atene, voi avrete la cattiva fama e la colpa, da parte di quelli che vogliono attaccare la città, di aver condannato a morte Socrate, uomo sapiente. Diranno infatti che sono sapiente anche se non lo sono, quelli che vi vogliono far oltraggio. Se aveste aspettato solo un poco, la cosa sarebbe avvenuta naturalmente da sè. Vedete infatti che la mia età è già molto avanzata, anzi vicina alla morte. Ma questo non lo dico a voi tutti, (d) ma solo a quelli che hanno votato la mia morte. [...] Sono stato colto sprovvisto, è vero, ma non di argomenti, bensì di sfrontatezza e di impudenza; perché non ho voluto parlarvi nel modo che certo vi sarebbe stato gradito, piangendo e lamentandomi e facendo e dicendo (e) molte altre cose indegne di me, come ripeto, ma che voi siete abituati a sentire dagli altri. Ma io non ho creduto prima di dover fare qualcosa di vile per paura del pericolo, né mi pento ora di essermi difeso in tal modo; preferisco anzi di gran lunga morire per essermi difeso in questo modo che vivere per essermi difeso in quello. [...]

(39a) Ma badate bene, o cittadini, che sfuggire alla morte è difficile, ma molto più sfuggire alla malvagità: (b) questa infatti corre molto più veloce della morte. E io, che sono lento e vecchio, sono stato raggiunto da quella che è più lenta; i miei accusatori, invece, che sono validi e pronti, da quella che è più veloce, la malvagità. E così io ora me ne vado alla pena di morte, condannato da voi; questi, alla pena dell'iniquità e dell'infamia, condannati dalla verità. lo sto alla mia punizione e questi alla loro. E forse era necessario che le cose andassero così; e credo che la misura sia giusta per tutti.