Negli scritti degli Arabi ho
letto, Padri venerandi, che Abdalla Saraceno, richiesto di che gli apparisse
sommamente mirabile in questa specie di teatro che è il mondo, rispondesse che
nulla scorgeva più splendido dell’uomo. E con questo detto concorda quello
famoso di Ermete: “Grande miracolo è l’uomo, o Asclepio”[2].
Ora mentre ricercavo il senso
di queste sentenze non mi soddisfacevano gli argomenti che in gran numero molti
recano sulla grandezza della natura umana: esser l'uomo vincolo delle
creature, familiare a quelle superiori, sovrano di quelle inferiori,
interprete della natura per l'acume dei sensi, per l'indagine della ragione,
per la luce dell'intelletto, intermedio fra il tempo e l'eternità e, come
dicono i Persiani, copula anzi imeneo del mondo, di poco inferiore agli angeli
secondo la testimonianza di David[3].
Grandi cose, queste, certo, ma non le più importanti, non tali, cioè, per cui
possa giustamente arrogarsi il privilegio di una ammirazione senza limiti.
Perché, infatti, non ammirare di più gli angeli e i beatissimi cori del cielo?
Ma alla fine mi parve di
avere compreso perché l'uomo sia il più felice degli esseri animati e degno
perciò di ogni ammirazione e quale sia infine quella sorte che, toccatagli
nell'ordine universale, è invidiabile non solo ai bruti, ma agli astri e agli
spiriti oltremondani. Cosa incredibile e meravigliosa! E come altrimenti, se è
per essa che giustamente l'uomo vien proclamato e ritenuto un grande miracolo
e meraviglia fra i viventi!
Ma quale essa sia, ascoltate,
o Padri, e benigno orecchio porgete, nella vostra cortesia, a questo mio
parlare. Già il sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato, secondo le leggi di
un'arcana sapienza, questa dimora del mondo, quale ci appare, tempio
augustissimo della divinità. Aveva abbellito con le intelligenze l'iperuranio[4],
aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi[5],
aveva popolato di una turba di animali d'ogni specie le parti vili e turpi del
mondo inferiore. Senonché, recata l'opera a compito, l'artefice desiderava che
vi fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un'opera sì grande, di
amarne la bellezza, di ammirarne l'immensità. Perciò, compiuto ormai il tutto,
come attestano Mosè e Timeo[6],
pensò da ultimo a produrre l'uomo. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su
cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno ve n'era da elargire in
retaggio al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno ne rimaneva su cui
sedesse codesto contemplatore dell'universo. Tutti ormai erano pieni; tutti
erano stati distribuiti, nei sommi, nei medi, negli infimi gradi.
Ma non sarebbe stato degno
della paterna potestà venir meno quasi impotente nell'ultima opera; non della
sua sapienza rimanere incerta nella necessità per mancanza di consiglio; non
del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la
divina liberalità fosse costretto a biasimarla in se stesso.
Stabilì finalmente l'ottimo
artefice che a colui, cui nulla poteva dare di proprio, fosse comune tutto ciò
che singolarmente aveva assegnato agli altri. Accolse perciò l'uomo come opera
di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: «Non ti ho
dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna
prerogativa tua, perché quel posto, quell'aspetto, quelle prerogative che tu
desidererai, tutto appunto, secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e
conservi. La natura determinata degli altri è contenuta entro leggi da me
prescritte. Tu te la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il
tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo,
perché di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né
celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e
sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi
prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti; tu
potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono
divine».
O suprema liberalità di Dio
padre! o suprema e mirabile felicità dell'uomo! a cui è concesso di ottenere
ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel nascere recano seco dal
seno materno, come dice Lucilio, tutto quello che avranno. Gli spiriti superni
o dall'inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli.
Nell'uomo nascente il Padre ripose semi d'ogni specie e germi d'ogni vita. E
secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i
loro frutti. E se saranno vegetali, sarà pianta; se sensibili, sarà bestia; se
razionali, diventerà animale celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di
Dio. Ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel
centro della sua unità, fatto un solo spirito con Dio, nella solitaria caligine
del padre, colui che fu posto sopra tutte le cose starà sopra tutte le cose.
[1] Questo testo viene considerato giustamente una
sorta di manifesto dell’umanesimo, perché esalta la
straordinarietà dell’uomo rispetto alle altre creature. L’occasione
della sua stesura è legata al problema (molto attuale) di trovare una sorta di
“minimo comune denominatore” tra le diverse esperienza culturali e religiose
dell’umanità in vista della ricerca di una “pace filosofica”. Questo spiega
perché l’autore, noto per la sua straordinaria memoria e versatilità culturale,
evochi la sapienza araba e, poi, quella antica.
[2] Ermete Trismegisto è l’autore leggendario di un corpus
di opere di ispirazione neoplatonica, scritte nella tarda antichità e molto
amate dagli umanisti fiorentini per il loro respiro “universale” (tra queste
figura l’Asclepius). Si consideri che le grandi religioni del libro
(ebraismo, cristianesimo, islam) ricorsero ampiamente, per l’intelligenza delle
loro rispettive “scritture”, al lògos greco e, segnatamente,
neoplatonico, che, quindi, poteva rappresentare un terreno comune d’incontro
tra esse.
[3] Salmi, VIII, 5-6.
[4] Sono le idee platoniche concepite come divinità,
secondo la versione neoplatonica. L’iperuranio è il mondo “sopra il
cielo” in cui immaginariamente Platone colloca le idee.
[5] La concezione platonica concepisce i pianeti come
viventi, per spiegare il loro moto apparentemente irregolare.
[6] Genesi, I, 26-28. Il Timeo è il dialogo di Platone in
cui è raffigurata la “creazione” del mondo dalla materia primordiale.