[ ... ] Guardandomi più da vicino, e considerando i miei errori (i quali soli testimoniano che in me v'è dell'imperfezione), trovo che dipendono dal concorso di due cause, e cioè dalla facoltà di conoscere che è in me e dalla facoltà di scegliere, o libero arbitrio: ossia dal mio intelletto ed insieme dalla mia volontà.
Poiché con l'intelletto solo, io non affermo né nego alcuna cosa, ma percepisco solamente le idee[1] delle cose, che posso affermare o negare. Ora, considerando così precisamente, si può dire che non si trova mai in esso alcun errore, purché sì prenda la parola errore nel suo significato. E benché vi siano, forse, un'infinità di cose nel mondo, di cui non ho nessuna idea nel mio intelletto, non si può dire per questo che esso sia privato di tali idee, come di cosa dovuta alla sua natura, ma solamente che esso non le ha; perché, in effetti, non vi è nessuna ragione per provare che Dio avrebbe dovuto darmi una facoltà di conoscere più grande e più ampia di quella che mi ha data; e per quanto destro e dotto operaio io me lo rappresenti, io non debbo per questo pensare che egli avrebbe dovuto mettere in ciascuna delle sue opere tutte le perfezioni che può mettere in alcune. Io non posso neppure lamentarmi che Dio mi abbia dato un libero arbitrio o una volontà assai ampia e perfetta, poiché in effetti, io la sperimento così vaga ed estesa che non è rinchiusa in nessun limite. E ciò che mi sembra molto notevole in questo luogo è che, di tutte le altre cose che sono in me, non ce n'è nessuna così perfetta e così estesa, che io non riconosca che essa potrebbe essere ancora più grande e più perfetta. Poiché, per esempio, se considero la facoltà di concepire che è in me, io trovo che essa è d'una piccolissima estensione e assai limitata, e in pari tempo mi rappresento l'idea di un'altra facoltà molto più ampia, ed anzi infinita; e perciò solo che posso rappresentarmene l'idea, conosco senza difficoltà che essa appartiene alla natura di Dio. Nella stessa guisa, se esamino la memoria, o l'immaginazione, o qualche altra facoltà, io non ne trovo nessuna, che non sia in me piccolissima e limitata, e che non sa in Dio immensa e infinita. Non vi è che la sola volontà, che io sperimenti in me così grande, che non concepisco l'idea di nessun'altra più ampia ed estesa: di modo che essa principalmente mi fa conoscere che reco l'immagine e la rassomiglianza di Dio. Perché, sebbene essa sia incomparabilmente più grande in Dio che in me, così in ragione della conoscenza e della potenza, che trovandovisi congiunte la rendono più ferma ed efficace in ragione dell'oggetto, in quanto essa si riferisce e si estende a un numero infinitamente maggiore di cose; essa non mi sembra, tuttavia, più grande se la considero formalmente e precisamente in se stessa. Poiché essa consiste solamente in ciò: che noi possiamo fare una cosa o non farla (cioè affermare o negare, seguire o fuggire); o piuttosto solamente in questo: che per affermare o negare, seguire o fuggire le cose che l'intelletto ci propone, noi agiamo in modo che non ci sentiamo costretti da nessuna forza esteriore. Infatti, affinché io sia libero, non è necessario che sia indifferente a scegliere l'uno o l'altro dei due contrari; ma piuttosto, quanto più inclino verso l'ultimo, sia che conosca evidentemente che il bene e il vero vi si trovano, sia che Dio disponga così l'interno dei mio pensiero, tanto più liberamente ne faccio la scelta e l'abbraccio. E, certo, la grazia divina e la conoscenza naturale, ben lungi dal diminuire la mia libertà, l'aumentano piuttosto e la fortificano. Di modo che questa indifferenza che io sento, quando non sono portato verso un lato più che verso un altro dal peso di nessuna ragione, è il grado più basso della libertà, e rende manifesto piuttosto un difetto nella conoscenza, che una perfezione nella volontà; perché se conoscessi chiaramente ciò che è vero e ciò che è buono, non sarei mai in difficoltà per deliberare qual giudizio e quale scelta dovrei fare, e così sarei interamente libero, senza mai essere indifferente.
Da tutto ciò riconosco che la facoltà di volere, che io ho ricevuto da Dio, non è di per se stessa la causa dei miei errori, perché essa è amplissima e perfettissima nella sua specie; e neppure la facoltà d’intendere o di concepire: perché, non concependo nulla, se non per mezzo di questa facoltà, che Dio m’ha dato per concepire, è fuori dubbio che tutto ciò che concepisco, lo concepisco come conviene, e non è possibile che in ciò m’inganni. Dunque, donde nascono i miei errori? Da ciò solo, che la volontà essendo molto più ampia e più estesa dell’intelletto, io non la contengo negli stessi limiti, ma l’estendo anche alle cose che non intendo, alle quali essendo di per sé indifferente, essa si smarrisce assai facilmente, e sceglie il male per il bene, o il falso per il vero. E questo fa sì ch’io m’inganni e che pecchi.
Quali tipi o gradi di libertà ammette Cartesio?
Che ruolo vi giocano intelligenza (o facoltà di conoscere) e volontà?
Quale l’origine dell’errore?
[1] Mentre in Platone le “idee” sono le “stabili essenze” delle cose, in Cartesio, come per noi, l’idea è il concetto della nostra mente. Il cambio di significato si spiega come segue: i filosofi neoplatonici hanno interpretato le idee platoniche come “pensieri” nella mente di Dio, esemplari eterni, modelli di tutte le cose. Per analogia si possono concepire come “idee” anche i “modelli” delle cose che giacciono nella nostra mente, ossia i “concetti” che ne abbiamo.