Udine, 6 marzo 1999

L’equivoco del finalismo

di Giorgio Giacometti

Il fine di una cosa è dentro al suo limite (teloV), è la “perfezione” della cosa, come insegnava la Scolastica. Lo scopo, ciò in vista di cui, una cosa è, infatti, è il suo stesso essere. Se qualcosa si riproduce, è per essere ancora.

Ma non si dovrebbe dire: “per essere”. Si dovrebbe piuttosto dire che accade che qualcosa, riproducendosi, continua in qualche modo ad essere. Infatti se non si riproduce, ma si dissolve, cessa di essere del tutto. Solo ciò che ha la ventura di riprodursi in qualche modo permane. Non è necessario supporre che esso voglia o debba permanere: permane semplicemente.

Ciò che è, persiste nel suo essere fino a che non ne è impedito. Ciò che è, è e non può non essere, come insegna Parmenide, fin tanto che è. La causa prima di una cosa è la cosa stessa. Non per nulla la forma di una cosa, ossia la sua essenza, è in Aristotele la sua causa per eccellenza, la causa formale, senza di cui quella cosa non sarebbe quella cosa, non sarebbe affatto.

Nulla impedisce, per altro, come ricorda Plotino, che dall’Uno scaturiscano tutte le cose (e da tutte le cose l’Uno, come diceva Empedocle). Ciò può accadere perché l’Uno è tutte le cose e tutte le cose sono l’Uno.

Così l’organismo qualsiasi che non cade nella lotta per la sopravvivenza, tautologicamente sopravvive. Non è migliore di qualsiasi altro che sopravvive perché sopravvive. E’ semplicemente migliore di quello che soccombe, per il fatto che continua ad essere. Come sapeva Tommaso, infatti, ens et bonum convertuntur.

Così l’organismo con maggiore capacità di riproduzione si riproduce con maggiore successo e moltiplica organismi del suo tipo. Il cervo con le corna più robuste sconfigge più facilmente il rivale e più facilmente si riproduce. Ma il cervo non vuole affatto riprodursi, né promuovere la sua linea genetica. La linea genetica si promuove da sola generando cervi adatti allo scopo. A meno che essa non incroci, per accidente, linee più forti di lei.

Tutto è inerte, e ciò che ha l’apparenza di un’azione, è solo movimento. Se esso appare azione a qualcuno, ciò può dipendere solo dal fatto che quest’apparenza è necessaria come effetto dell’inerzia di qualcos’altro.

Come insegna Platone, ciascuno di noi, attraverso l’amore, si fa eterno nella prole. Ma l’amore è un demone che ci possiede, non qualcosa che vogliamo. E’ il demone della specie che ci fa volere, non siamo noi a volere il demone. La specie è la forma che abbiamo ereditato e che ci impone di riprodurci per riprodurla. Se la nostra forma non avesse questo potere su di noi essa non l’avrebbe avuto neppure sui nostri genitori e noi non saremmo qui a chiederci perché amiamo.

Ma amiamo che cosa? Non tanto desideriamo riprodurci, quanto ci riproduciamo a causa del desiderio. Il desiderio di che cosa?

Non solo non è necessario che il desiderio sia desiderio di riprodurci, ma non è neppure necessario che esso sia desiderio di essere, di persistere. Ciascuno di noi infatti è per il fatto di essere e, per questo, persiste, senza bisogno di desiderarlo.

Al contrario può essere necessario che desideriamo di morire perché la patria o la religione o la nostra famiglia (cioè un qualsiasi organismo di cui siamo parte) possano a loro volta persistere, continuare a essere. Se desideriamo di continuare a vivere noi stessi ciò deve dipendere necessariamente dal fatto che la nostra sopravvivenza è necessaria a qualcosa o a qualcuno. Infatti la nostra sopravvivenza, in sé, non è affatto necessaria, né è necessario, per noi, desiderarla. Siamo perché siamo, ma non è necessario per noi essere.

Forse la vera libertà si raggiunge quando, per caso, non serviamo più a niente e a nessuno e, anche se solo per un momento, è per noi del tutto indifferente essere o non essere.