Udine, 20 giugno 1998

 

Senso e gioco

 

di Giorgio Giacometti

 

 

Forse il “senso” non è qualcosa che c’è o non c’è, ma qualcosa che si può dare o non dare. La dazione di senso non intacca l’essere, ma la vita.

L’essere è siffatto che ci consente di giocare con lui al gioco che preferiamo. Il tutto si lascia interpretare come questo o quel mondo, si lascia pervadere da questo o quel significato. E’ un gioco di cui non vi è nulla di più serio poiché non v’è serietà se non nel giocarvi. L’uomo religioso non è se non colui che seriamente gioca. Il rispetto o la tolleranza per la cultura dell’altro sono rispetto e tolleranza per il suo gioco; foss’anche quello della disperazione e del nichilismo, ossia il gioco della sottrazione del “senso” alle cose.

Paradossalmente colui che rifiuta la religione, in quanto ne scopre l’essenza di illusione, è più religioso di chi vi si abbandona fiduciosamente, senza porsi affatto domande. Infatti nel rifiuto della religione è implicito il giudizio che ciò che si considera religione sia in effetti illusione. Ma in tale giudizio è implicito pure che la religione, se fosse ciò che dice di essere, non sarebbe affatto illusione, altrimenti non vi sarebbe nulla di scandaloso nel fatto di crederla illusoria. Sicché è il rispetto dell’idea di religione che induce taluni a rifiutare il fatto di essa.

Se la religione non è creduta possibile come fatto, chi la rifiuta come fatto non può neppure riconoscere questo fatto come tale, se non dispone dell’idea di ciò che nega, come termine di paragone. Ma se solo dispone dell’idea di religione, dunque dell’ipotesi, l’ateo può davvero negare che il gioco a cui si abbandona fiduciosamente l’uomo di fede possa essere più autentico del proprio?

 

Ma la consapevolezza (filosofica) che non si può prendere sul serio se non ciò che si vuole prendere sul serio, ossia che non possiamo che recitare la parte di colui che prende sul serio qualcosa, non getta forse l’ombra del dubbio, o del ridicolo, sul senso che ci si ostina a voler attribuire a cose che, in se stesse, non avrebbero, dunque, senso alcuno? L’ingenua dazione di senso di tutte le fedi non intende se stessa come riconoscimento di un senso che le cose stesse avrebbero in sé medesime? Il riconoscimento del fatto che Dio non è se non una mia proiezione, non più vera della sua negazione, non annulla forse la fede, non rende improbabile l’abbandono? Il gioco della vita non è forse bello solo se è dimentico del suo essere gioco, se è abbandono all’illusione non saputa come tale? Il filosofo sarebbe allora quel grillo parlante che disturberebbe il sogno dogmatico della fede, un rompiscatole che non sa stare al gioco e impedisce il gioco degli altri,  costringendoli al penoso risveglio.

Ma vi è forse un gioco più bello di tutti, il gioco di tutti i giochi, un gioco a cui educa una sola scienza, la dialettica (in senso platonico). La messa in luce della contraddizione tra le possibili interpretazioni del mondo, tra le visioni religiose del tutto, ovvero dell’intima contraddittorietà di ciascuna, è la dimostrazione del loro essere giochi, espressioni, ciascuna, di una cultura o, al limite, di una soggettività. E’, dunque, la dimostrazione del loro essere non vere. Ma che cosa è vero? E’ vero che il tutto comprende infiniti mondi possibili, ossia gli infiniti modi in cui esso ammette di essere interpretato. Il migliore dei mondi possibili è il mondo a cui sto ora giocando, che ora mi serve, che mi corrisponde. Si tratta del mondo pratico, quello in cui sono nato e che mi ha insegnato ad attribuire un senso piuttosto che un altro, ad orientarmi a partire dal mio punto di vista. La crisi di questo mondo, l’emergere della sua nascosta contraddizione forse mi dispera, ma insieme mi educa a uno sguardo più maturo, lo sguardo che prima sopporta, quindi gode della contraddizione. La compossibilità dei contrari, che il mondo consente, non è forse la più sublime espressione della potenza e della gloria dell’Assoluto?

Il filosofo non cessa per tutto ciò di essere uomo. Egli continua a vivere nella gettatezza, nel particolare mondo a cui la vita lo ha condotto, con un particolare modo di intendere le cose, un senso pratico. E’ bene e giusto che egli si conformi onestamente alla tradizione in cui è nato o a quella in cui è cresciuto o a cui è pervenuto. La sua professione di fede non sarà una menzogna, perché egli onestamente non può credere ad altro, posto che non è umanamente possibile non credere a qualcosa, sebbene ciò a cui egli professa di credere sia per lui teoricamente compossibile con il suo contrario, essendo soltanto la metafora di un insondabile mistero. Pretendere da lui che intenda ciecamente come vero ciò a cui crede, ciò a cui, dubitando, decide onestamente di affidarsi, significa condannarlo alla solitudine, alla disperazione, all’eresia (in senso etimologico). D’altra parte egli ha una presunzione: quella di pensare che coloro che non vedono o, probabilmente, non vogliono vedere la contraddizione o il metaforico in ciò a cui credono siano non più credenti o più seri di lui, ma soltanto più ciechi; che costoro non rendano onore alla loro fede in quanto fede, ma ne vogliano fare, contraddittoriamente, un sapere talmente evidente che si sarebbe tentati di chiedere loro quale merito, allora, vi sarebbe nel credervi, quale coraggio nell’affidarvisi.

 

Se la contemplazione dialettica dei contrari apre l’uomo all’infinito, mentre l’interpretazione dell’universo che ne fa un mondo particolare esprime la necessaria finitezza da cui sorge l’umana prassi, ci si potrebbe chiedere, per altro verso, se non sia possibile una superiore prassi fondata non sulla limitata interpretazione che conferisce un particolare senso al tutto, bensì su quell’infinita apertura che ne sviscera e sopporta le contraddizioni; in altre parole una prassi dialettica. Ma il tentativo di usare della contraddizione come di una molla per l’azione, dunque della storia (Hegel, Marx), in altri termini di secolarizzare la contraddizione (e la dialettica), si rivela necessariamente illusorio. Dove si orienterebbe infatti l’azione? Essa si orienterebbe ad assorbire la contraddizione conferendole appunto il senso di molla per l’azione, svuotandola dunque della sua tragicità. Il senso, già distrutto dalla contemplazione disinteressata che ne sviscera la contraddizione, riapparirebbe interamente laddove l’interesse che orienta la prassi decidesse di assorbire a suo uso e consumo la contraddizione; si riformerebbe, dunque, un (fantasma di) senso di cui l’azione, per non interrompersi, dovrebbe ignorare il possibile contrario. Ogni azione, infatti, si fonda sulla rimozione della possibilità della sua insensatezza, ovvero sull’oblio della mancanza di fondamento del senso che l’orienta.

Resta, dunque, che mentre, come uomini, non possiamo non credere a qualcosa per vivere, essendo costretti a discriminare e giudicare in funzione di ciò a cui abbiamo affidato il senso della nostra esistenza, in quanto, per altro verso, in noi si nasconde il seme del divino, possiamo coltivarlo allo scopo di pervenire alla contemplazione disinteressata dei contrari, dunque alla relativizzazione di ciò a cui prima credevamo ciecamente, assunto ora non più letteralmente, ma come metafora, compossibile con altre, di un imperscrutabile mistero. Esercitare, dunque, l’ermeneutica nella pratica e la dialettica nella teoria è affatto compossibile, dal momento che la seconda comprende la prima come una delle sue infinite possibili applicazioni. All’(apparente) coerenza nell’azione corrisponde la libera curiosità nella contemplazione, la sperimentazione dei contrari.

Se con Popper consideriamo scientifiche tutte le teorie le cui conseguenze empiriche sono falsificabili, tutte le teorie sono scientifiche in quanto falsificabili in qualche loro deriva empirica, ma nello stesso tempo non scientifiche in quanto già falsificate ab origine dalla loro immanente dialetticità come teorie. Resta che esse appaiono vere per la prassi tecnologica in quanto rimangono coerenti con il loro scopo una volta che ne siano opportunamente rimossi tutti gli svolgimenti contraddittori, sia teorici che empirici. In questo senso psicoanalisi e marxismo, come dottrine pratiche il cui scopo è l’emancipazione dell’Io o di una classe, sono veri nella loro inconfutabile coerenza ed adattabilità (ossia come religioni), mentre come dottrine scientifiche essi sono ab origine falsificati. In quanto ricondotti al rigore della scienza, infatti, marxismo e psicoanalisi trapassano nel loro contrario, rivelandosi così non più marxismo e psicoanalisi, non più scienza, né terapia, né azione politica, ma semplicemente filosofia. A prova di ciò basti solo considerare che il sospetto che queste dottrine gettano sul sapere in quanto tale (come ideologia o come produzione ingannevole dell’Io dovuta a inconfessabili istanze inconsce) si ritorce necessariamente su loro medesime, conducendo al paradosso del mentitore. Colui che afferma di mentire sempre, con quest’affermazione dice il vero o il falso? Quest’aporia suscita la necessità filosofica dell’intuizione, univocamente indefinibile, di ciò che vi si nasconde.