Udine, 19 ottobre 1997

 

Effetti del paradosso di Chalmers

 

di Giorgio Giacometti

 

 

 

Prendiamo il paradosso di Chalmers: il mondo non sarebbe diverso se nessuno vi fosse cosciente. Le leggi che presiedono alla circolazione della materia - vi si annoverasse anche il caso - non sembrano implicare qualcosa come la «coscienza». In maniera assai più importante la catena dei significanti, in quello che diciamo il «linguaggio», può essere descritta a partire dalla sua «struttura», secondo gli assi delle sue possibili sostituzioni rispettivamente paradigmatiche e sintagmatiche, indipendentemente dall’«effetto» di senso che vi attribuiamo.

Anzi, il «senso» come tale sembra risultare, di volta in volta, quasi acmé della parole, come punta della struttura, nell’attuale gioco delle parti e delle combinazioni, senza tuttavia essere scomponibile in parti corrispondentemente analoghe alle parti della struttura medesima. Analogamente la coscienza, certo, non è indifferente alle trasformazioni della sua «base» materiale: quando nel corpo si sviluppano certe reazioni biochimiche si ha la «sensazione» di sonno, oppure di affaticamento; certe «sostanze» ingenerano euforia; una botta sul cranio produce stordimento o una vera e propria perdita di coscienza... Ma non si saprebbe trovare una relazione diretta tra un certo stato del corpo e un corrispondente stato della coscienza, nel senso della definizione di un fascio di relazioni biunivoche tra elementi dell’uno e «aspetti» dell’altra.

Se consideriamo la coscienza come uno stato dell’essere (l’«esserci» della fenomenologia di Heidegger) non puntuale o ideale, ma articolato, costitutivamente mosso, «luogo» del raccogliersi di «sensi» differenti, di «sensazioni, emozioni, pensieri» ecc., possiamo unificare in un solo problema la questione del «senso» nel linguaggio e quella della «coscienza» nel corpo. L’esserci è ciò che è certamente in relazione al «mondo», come sintesi attuale del «discorso» da cui è interpellato e/o delle condizioni materiali che vi soggiacciono (prescindendo, qui, dalla relazione di possibile differenza, identità o interferenza tra questi due momenti). Ma non è in alcun modo possibile, per il paradosso di Chalmers evocato ed esteso al dominio del linguaggio, «ridurre» l’esserci al mondo stesso.

In particolare, la catena dei significanti non sarebbe tale, ossia non differirebbe da una mera sequenza, obbediente a un determinato algoritmo, di elementi in-significanti, se non vi si producesse, in maniera irriducibile, l’effetto del «senso». Ma tale effetto non si produce solo in riferimento all’intero del discorso, bensì anche alle sue parti, benché non sia possibile determinare la relazione biunivoca, all’interno di queste, tra ciascuna di esse e il suo particolare «significato». Cionondimento la singola parola «casa» evoca qualcosa di diverso dalla sua forma grafica o sonora, sebbene tale «senso» non sia affatto univocamente determinato. Tale effetto non sarebbe possibile se non per una «coscienza» (non diremo, per ora, se di «qualcuno», di «molti», di «uomini», di «viventi» ecc., per non moltiplicare i problemi). D’altra parte l’effetto di senso di tale parola differirebbe infinitamente da quello dell’intero sintagma che la contenesse.

Analogamente il dolore di un pugno sul viso è differente da quello di un calcio sugli stinchi, anche se non è possibile determinare in maniera univoca la relazione tra ciascun «evento», sul piano «fisico», e la «sensazione» che esso produce come effetto nella coscienza. Entrambe le «percezioni», a loro volta, differiscono infinitamente dall’«appercezione» a partire da cui, per esempio, è possibile confrontarle tra loro.

Questi esempi indicano che quell’«esserci» che è quello che è in relazione al mondo, o, meglio, alla determinata configurazione attuale del mondo, «si riverbera» a sua volta con effetti di «senso» e di «sensazione» sulle parti del mondo medesimo, anche se non è possibile determinare la relazione biunivoca tra questi effetti e quelle parti.

Noi non abbiamo, né potremmo avere mai, se non per astrazione, un mondo puramente materiale, ossia scevro del riverbero della coscienza sulle sue parti, per quanto essa si attenui ai suoi margini, come non possiamo immaginare una coscienza che non sia «coscienza di» qualcosa e che non dipenda, nel modo stesso in cui è coscienza, sebbene in modo indeterminato, da ciò di cui è coscienza (come si impara presto, per esempio, nell’esperienza del dolore).

Perciò la morte, come fine della coscienza, resta per noi un impensabile, un «luogo» di cui è possibile temere l’assenza o sperare che celi il «segreto», appunto, di quelle relazioni di interdipendenza tra mente e natura di cui cerchiamo invano, in questo mondo, la formula.

Ma il mistero della morte, a ben vedere, non è se non quello della vita. La vita, infatti, è il nome che diamo a questa compenetrazione di materia e sensazione che caratterizza sia l’orizzonte della natura (piante, animali), sia l’orizzonte del linguaggio (uomini). I segni naturali e artificiali ci appaiono sempre necessariamente, proprio in quanto ci appaiono, vivificati dal senso che non possiamo non attribuire loro, fosse pure quello di «utilizzabili» o di «scarti».

Di qui l’impossibilità per noi di uscire dall’orizzonte del mito, che non ci abbandona neppure se gli diamo il nome di «scienza», come dimostra la semplice impossibilità di parlare di «noi», ossia di eludere la minaccia del solipsismo, in maniera che non sia velleitaria. I soggetti, plurali, del sapere devono prima simbolicamente istituirsi reciprocamente come «coscienti» sebbene nulla del loro sapere, che è costruzione di strutture, possa garantire loro di non avere continuamente a che fare o a che vedere con automi che simulano perfettamente la coscienza di cui Uno solo, e precisamente il lettore di queste righe, potrebbe essere titolare.

 

NOTE

 

Per "paradosso di Chalmers" intendiamo qui quello che questo autore denomina "argomento della concepibilità" e che così riassume:

"According to this argument, it is conceivable that there be a system that is physically identical to a conscious being, but that lacks at least some of that being's conscious states. Such a system might be a zombie: a system that is physically identical to a conscious being but that lacks consciousness entirely. It might also be an invert, with some of the original being's experiences replaced by different experiences, or a partial zombie, with some experiences absent, or a combination thereof. These systems will look identical to a normal conscious being from the third-person perspective: in particular, their brain processes will be molecule-for-molecule identical with the original, and their behavior will be indistinguishable. But things will be different from the first-person point of view. What it is like to be an invert or a partial zombie will differ from what it is like to be the original being. And there is nothing it is like to be a zombie. "

Si tratta, come lo stesso autore avverte, di una variante di analoghi argomenti di Cartesio (argomento della smaterializzazione) e di Leibniz (argomento dell'automa o del mulino).

Cfr. David J. Chalmers, Consciousness and its Place in Nature