La filosofia politica moderna

Leviatano

La filosofia moderna si contraddistingue per la sua assoluta novità anche nel campo del pensiero politico.

Per comprendere la novità rappresentata da tale pensiero può essere utile ricordare alcuni tratti tipici della filosofia politica pre-moderna, caratteristica del mondo antico, medioevale e, in generale, extra-europeo.

Nelle concezioni tradizionali (premoderne o extraeuropee) non si concepiscono gli uomini come individui isolati. Ogni cultura tradizionale mette al centro prima il tutto (stato, città, comunità), quindi l’individuo, la parte.

Secondo queste concezioni l’uomo è sempre stato (perché lo è per natura o essenza) un animale socievole e politico (cfr. la Repubblica di Platone, la Politica Aristotele ecc.); ciò implica che prima “viene” lo Stato e poi l’individuo: se salvo lo Stato, salvo l’individuo. L’uomo è considerato come la cellula o l’organo di un organismo superiore.

Questa concezione, che oggi viene considerata disumana, implica che il singolo possa essere sempre sacrificato “sull’altare” della comunità: l’uomo esiste solo per la comunità; il piacere privato è considerato anti-sociale perché l’individuo vi si isola dagli altri e dalla comunità, come se una cellula di un organismo non svolgesse più solo le proprie funzioni (i doveri, cfr. la concezione degli antichi stoici), ma si prendesse delle licenze che non le competono, mettendo a repentaglio la salute dell’organismo.

Dopo la rivoluzione culturale dell’umanesimo e del rinascimento e l’epoca della guerre di religione (XVI-XVII secc.), si sviluppa, in contrapposizione a tali concezioni, la dottrina del moderno giusnaturalismo, cioè la teoria del diritto [“ius“] naturale moderno (da distinguersi dalla concezione del diritto naturale elaborata nel Medioevo, che radicava tale diritto  nel diritto divino) che assume la forma di contrattualismo, cioè di una teoria politica basata sull’idea di un contratto sociale.

In Inghilterra, in particolare, culla (già dal Medioevo) dell’approccio empiristico (inaugurato nella forma moderna, segnata da un acceso sperimentalismo, da Francesco Bacone),  nasce e si sviluppa questa  nuova concezione secondo la quale il potere politico esercitato dal sovrano sarebbe fondato non sul diritto divino o sulla tradizione dinastica (cioè su basi feudali), bensì, appunto, su un contratto sociale; dunque, in definitiva, sarebbe un potere non originario, bensì delegato dall’effettivo sovrano, il popolo (concezione, per la verità, che si poteva trarre anche da una certa interpretazione del diritto romano e che, nel Medioevo, sul continente europeo, fu tratta già, nel Trecento, da Marsilio da Padova, mentre in Inghilterra lo fu da Guglielmo di Occam).

Tale dottrina, nella sua forma moderna, “cartesiana”, nasce con un autore davvero paradossale, l’inglese Thomas Hobbes. Egli, infatti, la elabora non già per giustificare (come ci si potrebbe attendere) il diritto dei sudditi a resistere al sovrano che violasse il patto costituzionale o, magari, a deporlo per sostituirlo con un altro a gradimento dei sudditi stessi (come sarà poi la dottrina di John Locke e, in generale, dei costituzionalisti e dei liberali e, poi, democratici moderni), ma per argomentare il fondamento dell’assolutismo regio, partendo da premesse del tutto diverse, anzi opposte rispetto a quelle p.e. di Jean Bodin (che nei suoi Sei libri sullo Stato del 1576, scritto sotto la forte impressione della strage di San Bartolomeo, perpetrata quattro anni prima, sostiene il primato assoluto del potere del re come argine ai conflitti religiosi, proprio come farà Hobbes, ma lo lega ancora all’idea medioevale di una sovranità per “diritto divino“).

Hobbes parte da una premessa: è vero che, come argomenta Cartesio, la sola cosa che conosciamo siamo noi stessi, la nostra esistenza, ma da qui non possiamo affatto inferire che siamo una cosa pensante. Ciò di cui facciamo esperienza è che siamo corpi, contraddistinti, come sapevano gli stoici, dal fatto di agire e patire. Ora, se questo è vero e se conoscere è, come diceva Aristotele, scire per causas,  le sole “cause” degli eventi che possiamo conoscere sono i nostri atti di volontà, il principio delle nostre azioni. Corrispondentemente i soli eventi che possiamo ricondurre a tali principi di conoscenza sono, non gli eventi naturali, il cui artefice è Dio e che sfuggono, pertanto, a un sapere che non sia ipotetico, ma i fatti, ciò che noi stessi facciamo: sicché, come dirà poi Giambattista Vico, ispirandosi a Hobbes, verum et factum convertuntur.

La stessa matematica, tanto apprezzata da Galileo e Cartesio, offre conoscenza certe, nell’ottica di Hobbes, perché è una nostra costruzione, esattamente come la logica, che da questa deriva (non dimentichiamo che Hobbes è un nominalista, come Ockham e, in generale, gli autori della tradizione empirista: il linguaggio è una costruzione umana, costituito di segni arbitrari dal valore convenzionale).

Ora, a partire da queste premesse, che cosa possiamo conoscere meglio di ogni altra cosa (oltre alla logica e alla matematica)? Ciò che dipende da noi, dalla nostra azione, dunque ciò che è compreso nel campo etico e, soprattutto, politico.

Hobbes parte da un’ipotesi (sorta di “assioma” del suo sistema politico): l’uomo, come individuo, sarebbe nato libero, ma in una condizione originariamente a-sociale (non sia, cioè, come aveva viceversa insegnato Aristotele e tutti ancora ritenevano, fin dall’inizio un “animale sociale” o “politico”). In questo cosiddetto  “stato di natura“, in assenza di un Stato (politico), ciascun individuo ha diritto a tutto (ius in omnia), perché desidera tutto e non incontra limiti giuridici rispetto ai propri desideri. L’uomo, però, a differenza degli animali, è dotato di ragione (che in Hobbes equivale a calcolo): poiché nessuno potrebbe soddisfare i propri desideri da morto, condizione per poterli esaudire è conservare la propria vita; ma nello stato di natura, data la tendenza naturale di ciascuno a prendere possesso di tutto, vige il bellum omnium contra omnes e la vita non è affatto assicurata; conviene, pertanto, a tutti applicare le seguenti tre leggi di ragione (o di natura): pax est quaerendaius est retinendum, pacta sunt servanda. Occorre cioè perseguire la pace, a questo fine contenere il proprio diritto a tutto in limiti compatibili con il diritto altrui (secondo il precetto “non fare agli altri quello che non vorresti che fosse fatto a te”) e, da ultimo, rispettare i patti. Poiché, tuttavia, nessuno può fidarsi che gli altri rispettino tali leggi (a ciascuno, infatti, conviene che siano solo gli altri a rispettarle, mentre, soggettivamente, ciascuno ha tutto l’interesse a violarle, ogniqualvolta le circostanze lo suggeriscano), bisogna rinunciare alla propria libertà naturale e, tramite un patto sociale, affidare tutto il potere a un sovrano (individuale o collegiale) che eserciti tale potere in forma assoluta, sottraendolo agli individui.

Lo stato è, dunque, in ultima analisi, una semplice associazione di soggetti liberi che si accordano per conferire ogni potere a un sovrano autorizzato a limitare drasticamente la loro libertà per garantire loro sicurezza.

Partendo da premesse simili, giunge, invece, a una soluzione politica del tutto diversa, che anticipa moderne vedute liberali e democratiche, l’altro grande filosofo politico inglese del Seicento, attivamente partecipe alla seconda rivoluzione inglese del 1688-89, cioè John  Locke.

Anche Locke, come Hobbes, parte dalla “fantasia” dello stato di natura, cioè immagina la condizione nella quale si troverebbero (o si sarebbero trovati) gli uomini in assenza di Stato. A differenza di Hobbes, tuttavia, secondo Locke in questa condizione il diritto coinciderebbe con la legge di natura: ciascuno avrebbe diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà (non “a tutto”, come in Hobbes). Lo stato di natura non sarebbe, dunque, uno stato di guerra permanente di tutti contro tutti.

Perché, allora, stipulare un contratto tra individui per dare origine allo Stato (altra analogia con la teoria di Hobbes: la legittimazione contrattualistica del potere politico)? L’obiettivo è quello di determinare esattamente i diritti di ciascuno e di assicurarli nel caso di violazione da parte di altri, dal momento che, in assenza di Stato, ciascuno sarebbe “giudice in causa propria” (cioè parte offesa e giudice coinciderebbero e la giustizia assumerebbe la forma di una vendetta, come nelle faide familiari).

D’altra parte, poiché gli individui formano lo Stato solo per assicurare diritti di cui essi già godono nella condizione pre-politica, sarebbe contraddittorio che essi accettassero che lo Stato stesso li potesse violare a suo arbitrio. Lo Stato, dunque, non esercita un potere assoluto, ma è limitato dalla “costituzione” (non necessariamente scritta), ossia dall’insieme dei diritti dei cittadini. Affinché tale limitazione sia operante Locke propugna la separazione dei poteri dello Stato, attribuendo al re il solo potere esecutivo e al parlamento il potere legislativo (per evitare il rischio del dispotismo, che si avrebbe se tutti i poteri fossero concentrati in una sola persona o in un solo organismo, fosse pure un parlamento, cfr. l’epoca di Cromwell), e ammette anche un “diritto di resistenza” (“appello al cielo”) dei cittadini al sovrano (o anche all’organo legislativo) qualora i loro diritti naturali fossero violati.

Locke si segnala non solo per aver teorizzato per primo la “non calpestabilità” dei diritti civili fondamentali e, in rapporto a questo, la divisione tra il potere legislativo (spettante al Parlamento e sovraordinato) e il potere esecutivo (spettante al monarca e al suo governo e subordinato) – divisione a cui si ispirerà Montesquieu a metà del Settecento quando integrerà il quadro con il potere giudiziario -,  ma anche per avere sostenuto per la prima volta (nella celebre Lettera sulla tolleranza del 1689) l’idea di tolleranza religiosa per tutte le sette cristiane (salvo atei e cattolici), sulla base del fondamentale argomento che, anche ammesso che una sola fede religiosa sia quella “vera”, essa non potrebbe in alcun modo costringere chi ha una fede diversa a convertirsi, ma solo persuaderlo con ragionamenti, laddove il potere politico si contraddistingue, rispetto a quello religioso, proprio per la facoltà di costringere all’osservanza delle leggi. Dunque il potere politico non ha niente da fare con le opinioni religiose, salvo che con quelle che, per motivi diversi, lo minano (quella cattolica, perché comporta una maggiore fedeltà al Papa, sovrano straniero, che al re d’Inghilterra; quella ateistica, perché chi non crede a nessun Dio non ha alcuna ragione per non commettere delitti, se sa di poter restare impunito).

Sulla filosofia politica di Locke cfr. questo video con Remo Bodei (dal minuto 33).

La dottrina di Hobbes, che inaugura la filosofia politica moderna, verrà ripresa con variazioni, relative alla forma dello stato (non più assoluto), non solo da Locke (sec. metà XVII sec., padre del pensiero liberale), ma anche da Jean-Jacques Rousseau (XVIII sec., padre del pensiero democratico).

L’idea di fondo di queste prospettive contrattualistiche (se si eccettua proprio quella di Hobbes), rilanciata dalla Rivoluzione Francese (cfr. la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789), è stata fatta propria, nel XIX sec., appunto dal liberalismo, corrente di pensiero che sostiene il valore sacro della libertà degli individui: come un’associazione privata, lo Stato avrebbe lo scopo di proteggere i beni e la vita di tutti, esercitando il monopolio della forza, quella che gli individui associati gli conferiscono (e potrebbero, quindi, almeno in via di principio, sempre anche togliergli).

N. B. i totalitarismi (come quelli sorti nel XX sec., p.e. fascismo, nazismo, bolscevismo), riesumando, per certi aspetti, una concezione pre-moderna della politica, prevedono, invece, uno Stato forte che permea ogni aspetto della vita del singolo, sottraendogli spazi di “privato” che viceversa le dottrine moderne, di tipo “contrattualistico”, tendono a garantirgli.

L’attuale moderno stato di diritto (liberal-democratico), di tipo occidentale, è ispirato alla dottrina del patto sociale (che sarebbe espresso dalla “Costituzione” scritta degli Stati, per es. quella italiana). Esso è “garantista”, ovvero mediante il diritto, a cui esso stesso si attiene, regolamenta e tutela le libertà dell’individuo.

L’individuo vi è libero di fare tutto ciò che non è vietato dalla legge.

Jean-Jacques Rousseau si distingue, invece, per aver sviluppato la dottrina del contratto sociale (al cuore dell’omonima opera del 1762), ereditata da Hobbes e Locke, nella direzione di una radicale fondazione della nozione di “sovranità popolare”, che è al fondo del moderno concetto di “democrazia”.

di Giorgio Giacometti