Principi di scienza della natura

gravitazione

Nella costruzione dei singoli “oggetti” le categorie dell’intelletto hanno un uso empirico, in quanto si applicano al materiale (fenomeni) proveniente dal mondo esterno (dalla “cosa in sé”), attraverso i cinque sensi. Ma questo uso empirico delle categorie non ci consente di generare un sapere propriamente scientifico, perché il fondamento della conoscenza resta empirico, con tutti i limiti che ciò comporta (cfr. il limite della prospettiva di Hume, dal punto di vista della fondazione della scienza): in particolare, il sapere non acquista i caratteri dell’universalità e della necessità, ma si presta alla confutazione ad ogni nuova esperienza (dunque, in termini platonici, non si tratterebbe di scienza, ma sempre solo di un’opinione, per quanto suffragata da indizi).

Ora, però, le stesse categorie, applicate direttamente alle forme pure (o a priori) di spazio e tempo, che, come sappiamo, risiedono, secondo Kant, nel nostro apparato percettivo, possono avere un uso puro (o trascendentale). In questo caso il “gioco” rimane confinato nell’ambito della nostra mente, perché determinate strutture a priori (le categorie o concetti puri) sono applicate ad altre strutture, altrettanto a priori (spazio e tempo come forme pure della sensibilità).

Che cosa ne scaturisce? Secondo Kant applicando le categorie alle forme pure la mente genera i principi fondamentali, universali e necessari (proprio perché a priori, ossia indipendenti da ogni esperienza e precedenti logicamente ogni contenuto materiale proveniente dai sensi), della scienza, specialmente della matematica e della fisica.

La “rivoluzione copernicana” è compiuta. Le leggi generali della natura non si trovano “là fuori”, nel mondo esterno, non riguardano la “cosa in sé”, ma soltanto il nostro modo di conoscere il mondo. Non sono tanto leggi “fisiche”, come comunemente si intendono (ossia leggi “reali”), ma leggi logiche, che riguardano il modo in cui la nostra mente organizza i fenomeni. Stanno ai fenomeni un po’ come la grammatica di una lingua sta alle parole che ogni singolo parlante decide di usare. Le parole sono imprevedibili e dipendono dall’esperienza, ma le regole grammaticali sono fisse e certe a priori (altrimenti non ci si potrebbe neppure intendere).

Siamo certi di queste leggi perché tutti noi, in quanto esseri umani, decodifichiamo quanto percepiamo con i sensi nello stesso modo, per mezzo degli stessi algoritmi. Con una metafora tratta dallo sviluppo contemporaneo della tecnologia, si potrebbe dire che quello che per noi è assolutamente certo e, quindi, prevedibile, è il modo di “girare” del software che abbiamo nella nostra mente, non il dato empirico, che proviene dall’esterno, sempre soggetto a variazioni imprevedibili.

Per generare le leggi fondamentali della natura, dunque, le categorie si applicano alle intuizioni di spazio e tempo tramite schemi che portano a una sintesi che è a priori

In particolare applicando le categorie alle forme pure dello spazio e del tempo otteniamo:

CATEGORIE

(concetti puri)

SCHEMI

(applicazione delle categorie a spazio e, soprattutto, tempo)

PRINCIPI (di meta-fisica della natura) =

leggi fondamentali a priori della fisica

QUANTITA’

U NITA’

PLURALITA’

NUMERO

LEGGI DELLA MATEMATICA

TOTALITA’

QUALITA’

REALTA’

NEGAZIONE

TRASFORMAZIONE

CONTINUITA’ DELLA NATURA

LIMITAZIONE

RELAZIONE

SOSTANZA/ACCIDENTE

PERMANENZA

CONSERVAZIONE DELLA MATERIA

CAUSA/EFFETTO

SUCCESSIONE

AZIONE E REAZIONE

AZIONE RECIPROCA

SIMULTANEITA’

GRAVITAZIONE UNIVERSALE

MODALITA’

REALTA’

ESISTENZA

MATERIA

POSSIBILITA’

CONTINGENZA

FORMA

NECESSITA’

ETERNITA’

LEGGE

Consideriamo che cosa ne risulta con riferimento alle fondamentali categorie della relazione.

  1.  In un qualunque fenomeno x si dovrà poter distinguere qualcosa che permane da qualcosa che varia. Ciò lo si ricava considerando che il fenomeno, che viene percepito nel tempo, viene giudicato necessariamente sulla base della categoria di sostanza e accidente (che presiede a qualsiasi tipo di giudizio, in quanto fondato sulla relazione tra soggetto e predicato). Sulla base di questo “schema trascendentale” (quello della “permanenza”, ricavato dalla categoria di “sostanza e accidente”) Kant ricava il principio universale della conservazione della materia (oggi diremmo dell’energia): ossia l’idea che in natura, per noi, debba esistere qualcosa di invariante nella variazione dei fenomeni, pena l’inconsistenza di qualsiasi pretesa scientifica. Si tratta, in altre parole, del principio che risale a Parmenide (“ciò che è è non può non essere”) ed è stato codificato dal chimico Lavoisier, contemporaneo di Kant, nella formula: “Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”.

Questo principio non è vero in assoluto, secondo Kant (in altre parole le “cose in sé” potrebbero benissimo crearsi e distruggersi “magicamente” in ogni istante casualmente), ma solo per i fenomeni che noi percepiamo. Del resto risulta abbastanza intuitivo quanto segue. Nell’istante in cui una “cosa in sé” mi colpisce essa mi si offre attraverso la sensazione. Ciò che mi si offre “si distende” in uno spazio e in un tempo del tutto soggettivi. Quale che sia, dunque, il “trattamento spaziotemporale” a cui sottopongo la sensazione, il suo contenuto potrà bensì variare nel modo di darsi (nel tempo), ma dovrà rimanere sostanzialmente identico, al fondo. Infatti l’“evoluzione” nel tempo di ciò che percepisco (di un fenomeno) è solo apparente, è dovuta a un’esigenza del mio apparato percettivo (dovuto al fatto che, a differenza di Dio, non sono in grado di percepire simultaneamente tutte le “fasi” di un fenomeno, p.e. l’evoluzione di una stella). Ma ciò che è in gioco (il fenomeno “stella”, nell’esempio) si offre tutto intero simultaneamente alla mia percezione in un solo “istante” extratemporale. Dunque le sue caratteristiche di fondo (p.e. la massa o, meglio, la somma della massa e dell’energia in gioco) devono rimanere costanti. È un po’ come guardare un dado da diversi punti di vista nel tempo: il suo aspetto varia nelle diverse prospettive, ma esso conserva la sua forma di fondo (altrimenti non sarebbe più quel dado).

2. Analogamente in qualunque fenomeno dovrò distinguere un evento precedente da uno seguente (per esempio nella successione dei moti delle palle da biliardo di cui parlava Hume); non solo, ma, sulla base della categoria di causa ed effetto, cercherò in quello che precede la causa di quello che segue (limitarsi solo alla successione temporale, come suggeriva di fare Hume, è insufficiente, dato il “modo di funzionare”, per così dire, della nostra mente).

Sulla base di questo schema (detto della “successione”) Kant ricava il principio della causalità universale e in particolare quello di azione e reazione: in natura, sempre per noi, non si dànno eventi senza causa, perché ciò che avviene in un determinato momento nel tempo richiede una spiegazione che risalga ai momenti precedenti (il che non implica che la spiegazione che fornisco, empiricamente, sia sempre quella corretta: tuttavia non posso fare a meno di cercare una spiegazione di tipo causale e non posso accontentarmi di una narrazione meramente temporale: Hume aveva torto). Se cerchiamo di afferrare come dalla causa segua l’effetto in ogni singolo istante del tempo incontriamo il principio di azione e reazione (in cui causa ed effetto sono sostanzialmente simultanei).

3. Infine, non posso fare a meno di pensare che due fenomeni simultanei si condizionino reciprocamente per il solo fatto di coesistere nello spaziotempo (in forza della categoria della reciprocità o interdipendenza).

Su questa base Kant ricava il principio della gravitazione universale (ossia l’idea che le parti di quella stessa materia invariante, che è stata “scoperta” applicando la categoria di sostanza allo spaziotempo, esercitino un’azione reciproca di attrazione o repulsione, inversamente proporzionale al quadrato della reciproca distanza).

Si può osservare che, mentre i valori delle singole grandezze fisiche non possono che dipendere da misure empiriche (“quanto è forte l’attrazione esercitata dalla Luna sulla Terra?” ecc.) ed essere, quindi, soggetti all’errore, le leggi fondamentali della natura, secondo Kant, pur essendo in qualche modo “scoperte” di qualcuno in un determinato momento, associando a un soggetto un predicato non implicito nel soggetto medesimo (sono giudizi sintetici), sono universali e necessarie, perché sono a priori, allo stesso modo del risultato di un complesso calcolo aritmetico (che nessuno potrebbe ricavare analiticamente dai suoi componenti, ma che, una volta ottenuto, è certissimo e indubitabile).

Secondo Kant, in ultima analisi, noi possiamo essere sicuri dei principi fondamentali della scienza della natura (fisica, in senso lato), semplicemente perché essi non costituiscono che il nostro modo di percepire (con i sensi, nello spazio e nel tempo) e di intendere (con l’intelletto) la realtà (i fenomeni).

In nessun modo si potrebbe ricavare l’esistenza di una grandezza invariante nell’universo (sia questa la massa o l’energia) se questa avesse una realtà in sé, indipendente da noi:

  1. né attraverso prove empiriche (perché queste potrebbero riferirsi sempre solo a casi particolari),

  2. né per assurdo, in modo puramente razionale (perché questo tipo di dimostrazioni o sfociano in antinomie, oppure non ci dicono niente di più di quanto già non sapessimo).

Bisogna ammettere che, mentre non sappiamo assolutamente nulla di che cosa esista in sé (ma semplicemente sappiamo che qualcosa, fuori di noi, esiste), certamente non possiamo fare a meno di ricostruire mentalmente i fenomeni, nel loro svolgersi nel tempo, “tenendo fermi” taluni “assiomi”: l’invarianza della massa e dell’energia globali e altre proprietà fisiche fondamentali, come la gravità ecc..

Basti pensare che, anche solo per poter svolgere qualche esperimento, io devo presupporre che alcune grandezze restino costanti (senza poterlo a sua volta dimostrare!), in modo da poter calcolare la variazione che l’esperimento stesso induce in altre.

Se, ad esempio, in una reazione chimica il peso complessivo dei reagenti, a reazione avvenuta, diminuisce rispetto alle condizioni iniziali, posso legittimamente congetturare che parte della massa si sia trasformata in gas oppure in energia solo se presuppongo che la massa complessiva o anche solo l’energia costituiscano una quantità costante.

Se, invece, supponessi che in qualunque istante potesse apparire o scomparire una certa quantità di materia senza alcuna regola, non potrei mai trarre alcuna conclusione da alcun esperimento.

La soluzione di Kant è: sono certo che i principi fondamentali – che devo presupporre nella scienza della natura – siano validi perché essi non sono altro che un’espressione del mio modo di conoscere; in altre parole, essi saranno sempre veri fintanto che io resterò un essere umano.

di Giorgio Giacometti