La dottrina aristotelica delle cause o principi

A partire da una critica severa delle dottrine dei suoi predecessori (che costituisce anche il primo esempio di “storia della filosofia”), Aristotele, nella Metafisica e poi ancora nei libri della Fisica, sviluppa la sua dottrina delle quattro cause, mediante la quale egli intende rendere ragione del divenire, dopo averlo concepito come un continuo passare delle forme delle cose dalla potenza all’atto.

Aristotele, infatti, dopo aver sostenuto che le cose cambiano (senza mutare, tuttavia, la propria essenza) passando dall’essere in potenza qualcosa (p.e. una quercia) all’essere in atto questo stesso qualcosa, deve spiegare perché si assista a questo cambiamento, che cosa lo provochi, cioè, appunto, quali ne siano le cause.

Cfr. U4, cap. 2, § 1, Le quattro cause, p. 307.

L’ipotesi di fondo è che ogni cosa sia, in qualche modo, “seminata” nella materia. Se ciascuna cosa (p.e. una statua, un carro, un fiore, una stella ecc.) non pre-esistesse logicamente alla materia non potrebbe poi, per puro caso, prendere forma. Le sole cause meccaniche (materiali ed efficienti, in termini moderni: massa ed energia) non sembrano ad Aristotele sufficienti per spiegare l’ordine del mondo (si ricordi che in greco sia ordine, sia mondo si dicono kòsmos, termine di origine probabilmente pitagorica, da cui deriva p.e. la nostra parola “cosmetico”). Si richiedono anche cause formali (queste forme pre-esistenti) e finali (le stesse forme considerate come scopo del movimento che le realizza o, anche, le funzioni che tali forme sono chiamate a svolgere).

In questo modo, Aristotele, preceduto da Platone e seguito dagli stoici, contrappone una visione del mondo finalistica, secondo la quale l’emergere delle forme delle cose dalla materia obbedirebbe a una sorta di progetto o di intelligent design (come si esprimono oggi alcuni teologi americani), a una visione del mondo meccanicistica, propria nel mondo antico originariamente soprattutto degli atomisti (dal momento che altri pre-socratici, come Talete e gli ionici, erano piuttosto pampsichisti o ilozoisti, cfr. U1, cap. 2, § 2, spec. p. 21, cioè pensavano che le cose fossero vive e si trasformassero  in  qualche modo “intenzionalmente”), secondo la quale l’universo sarebbe una sorta di macchina cieca, mossa da ingranaggi meccanici (le cause materiali ed efficienti) senza alcuno scopo.

N.B. Quest’ultima dottrina è quella che molti considerano implicita nella moderna visione “scientifica” dalla natura, che, effettivamente, almeno dal punto di vista metodologico, se non anche ontologico [cioè con riguardo al “metodo scientifico”, a prescindere dalle personali credenze dello scienziato relative alla “realtà” che si potrebbe celare dietro le apparenze], prescinde del tutto (o, per meglio dire, cerca di prescindere dal tutto) da ipotesi relative a cause finali e formali, così come da una mente divina ordinatrice.

La difficoltà principale dei meccanicisti consiste nello spiegare le forme funzionali delle cose, soprattutto degli esseri viventi e dei loro organi. In genere la spiegazione prevalente è la seguente: in un tempo infinito, in uno spazio infinito, infiniti incontri tra atomi sono destinati, prima o poi, a produrre per puro caso tutte le cose che ci circondano (in quanto aggregati casuali di atomi).

A tale argomento Aristotele e, in generale, i finalisti oppongono la tesi che questa sarebbe una non-spiegazione. Per spiegare l’ordine e l’organizzazione che ci circondano occorrerebbe, invece, secondo costoro, introdurre un’intelligenza divina ordinatrice, che, prendendo a modello le forme eterne, plasmi la materia a loro immagine (cioè a imitazione di queste forme eterne), lottando continuamente contro la tendenza dei corpi a dissolversi.