Presupposti culturali dell’idealismo hegeliano

Per comprendere meglio l’approccio di Hegel conviene richiamare brevemente alcune premesse storico-culturali, in mancanza delle quali difficilmente la filosofia hegeliana avrebbe potuto nascere.

  1. Andando molto indietro nel tempo possiamo ricordare la funzione che Platone e, dopo di lui, i (neo)platonici (da Plotino, attraverso Proclo, Cusano, Marsilio Ficino, GIordano Bruno ecc.), attribuivano alla filosofia: a partire dalla consapevolezza dei limiti del pensiero discorsivo o “ragione” (diànoia), tipico di saperi ipotetico-deduttivi come la matematica, Platone suggerisce di servirsi dell’intelligenza (noûs) per cogliere i “principi” del sapere (e dell’essere) altrimenti sfuggenti. Tale “intuizione”, tuttavia, si presenta come alcunché di sovrarazionale, di cui non tutti saremmo “gravidi”, e che è stata interpretata, soprattutto in ambito neoplatonico, come un atto “mistico”, spirituale più che razionale. Rispetto a tale atto la dialettica, mostrando le aporie in cui incorre qualsiasi ragionamento portato alle sue estreme conseguenze, assolverebbe una funzione preparatoria, avrebbe cioè il fine di purificare (catarsi) la mente dalle sue false credenze (dallo scambiare, come tendono a fare i “matematici”, semplici ipotesi con principi assoluti).
  2. Kant, pur muovendo da una fiducia caratteristicamente illuministica nella ragione, si accorge (grazie alle lettura dello “scettico” Hume) dei limiti del razionalismo di tipo cartesiano: il mondo meccanico che appare agli “occhi” della nostra ragione è puramente fenomenico, non necessariamente reale (non riguarda, cioè, la “cosa in sé”); la realtà potrebbe essere molto diversa da come ci appare, potrebbe avere fini e non solo cause meccaniche, noi stessi potremmo essere moralmente liberi ecc. (Kant, dunque, perviene, nella sua prospettiva, a sostenere quanto già Pascal aveva intuito: ossia che il meccanicismo cartesiano abbia una validità più limitata e circoscritta di quella che i padri del razionalismo moderno immaginavano); in particolare, se tentiamo di applicare le nostre categorie a ciò che va oltre quanto percepiamo con i nostri sensi cadiamo inevitabilmente in antinomie (Dialettica della ragion pura).
  3. I romantici, dal canto loro, sulla rivista Athenäum, dal 1798 sviluppano la dottrina kantiana elaborata nella Critica del Giudizio (1790) relativa al giudizio riflettente (teleologico ed estetico), in quanto giudizio che radica nel sentimento (Gefühl), piuttosto che nella ragione. A differenza che per Kant, tuttavia, secondo i romantici il sentimento non rimane confinato in una sfera soggettiva, ma, a partire dalla dottrina fichtiana secondo la quale il soggetto produce inconsciamente i fenomeni (e la cosa in sé è abolita), esso ci permette di cogliere proprio ciò che sfugge alla ragione, costretta nei suoi limiti e preda delle sue antinomie.