Quali le caratteristiche fondamentali della scienza moderna e della natura secondo la scienza?

Cfr. cap. II, § 1[1]

 

 

1.                A questa domanda si può rispondere in modo variegato.

1.1.            Si può mettere in luce il fatto che la scienza si vale sia di ragionamenti che di esperienza.

1.1.1.1.              Nel campo dell’esperienza dobbiamo distinguere la semplice osservazione, praticata anche dagli antichi, dai veri e propri esperimenti, in cui la natura è costretta a rispondere alle nostre domande.

1.1.2.                  La scienza, sotto questo profilo, pur ammettendo che vi possa essere qualcosa che le sfugge, tende a escludere gli eventi che la possano contraddire (p.e. i “miracoli”).

1.2.            La scienza coglie ciò che è replicabile.

1.2.1.                  La natura, quindi, “per costruzione”, non può che essere il regno delle regolarità e della ripetizione.

1.2.2.                  Per questo essa, se deve essere penetrata scientificamente, non può che essere regolata da leggi invarianti.

1.3.            I metodi di cui la scienza si vale sono prevalentemente il metodo induttivo e quello deduttivo.

1.4.            La scienza presuppone nella natura un ordine, di tipo matematico.

1.5.            Scopo della scienza è il dominio della natura[2] .

1.6.            L’ordine della natura è un ordine oggettivo, cioè non antropomorfico.

1.7.            Si può osservare che, dal punto di vista scientifico, la natura,  anche se è regolata da leggi, è costituita non da “essenze”, come le idee platoniche, ma di individui che interagiscono.

1.7.1.                  Interagiscono secondo scopi?

1.7.2.                  Nel modo di ragionare, p.e., di un fisico, di un chimico e anche di un biologo, a ben vedere, sembra che operino solo cause di tipo efficiente e materiale,  non finale.

1.7.2.1.              A rigore si dovrebbe escludere anche la causa materiale.

1.7.2.2.              Nella scienza moderna delle origini (coincidente con la “fisica”) la quantità di materia o “massa” appare quasi solo come una funzione dell’accelerazione di un corpo e della forza[3] impressavi.

1.7.2.3.              Successivamente la chimica si occuperà sì di diverse “sostanze” (i composti chimici), ma, a ben vedere, si tratta di combinazioni di atomi e molecole i cui costituenti elementari sono molto più semplici delle “materie” della fisica aristotelica, in ultima analisi riducibili a centri di forza (dunque, ancora, a cause di tipo efficiente o meccanico).

1.7.3.                  Anche alla causalità formale, che apparirebbe indispensabile nel campo biologico per spiegare l’assunzione da parte dei viventi della loro forma adulta,  si cerca di sostituire un’interpretazione di tipo meccanicistico, basata sull’interazione biochimica dei costituenti della vita (DNA, proteine ecc.)

1.7.4.                  L’idea secondo cui tutto ciò che avviene sarebbe determinato da leggi si può mettere in dubbio se si rileva come non si possa escludere l’incidenza del caso.

1.7.4.1.              Al caso ad esempio si potrebbe imputare l’origine della vita. Tuttavia questa opinione va chiarita.

1.4.7.1.1..                   Se intendiamo dire che l’origine della vita non consegue necessariamente da leggi di ordine fisico o chimico, si può senz’altro dire che essa sia un evento “possibile” e non “necessario”, dunque, in questo senso, “casuale”.

1.4.7.2.1..                   Ma se tutto ciò che accade dipende da una causa antecedente, anche l’evento dell’origine della vita deve essere stato necessario, qualcosa che ha fatto seguito in modo necessario, attraverso una catena lunghissima di altri eventi interconnessi, all’origine dell’universo.

1.7.4.1.2.1.                 Tuttavia, se neghiamo proprio che gli eventi si producano sulla base di catene causali infrangibili, ammettendo che, almeno a livello atomico, si possa parlare di “indeterminazione”, come suggerisce la fisica contemporanea, ecco che possiamo reintrodurre il caso.

1.7.4.2.              Anche se introduciamo il caso, però, dobbiamo preservare alla scienza il potere di previsione, pena la sua dissoluzione come sapere oggettivo.

1.4.7.1.2..                   Un esperimento verifica una teoria in tanto in quanto i suoi risultati erano previsti dalla teoria medesima.

1.7.4.2.1.1.                 Il che significa che il caso deve essere in qualche modo azzerato dai procedimenti della conoscenza scientifica (magari col ricorso alla statistica) altrimenti non si potrebbe parlare di scienza.

1.7.4.2.1.2.                 Un certo grado di “necessità” o di “consequenzialità”, quindi, anche oggi è attribuito alla natura, nell’immagine che la scienza ce ne restituisce.

 

2.                Quali i metodi e i concetti nuovi introdotti dalla rivoluzione scientifica?

2.1.            I metodi tipici della nuova scienza galileiana sono comunemente considerati i seguenti:

2.1.1.                  ricorso all’esperienza (osservazione ingenua);

2.1.2.                  esperimento (messa alla prova di ipotesi);

2.1.3.                  formulazione di ipotesi;

2.1.4.                  adozione di modelli matematici;

2.1.5.                  induzione (dal particolare al generale);

2.1.6.                  deduzione (dal generale al generale o al particolare).

2.2.            Tra i concetti (e le “grandezze”) che sono comunemente considerate “scoperte” della nuova scienza, alle sue origine nel XVII sec., si citano comunemente:

2.2.1.                  massa;

2.2.2.                  forza;

2.2.3.                  eliocentrismo;

2.2.4.                  inerzia;

2.2.5.                  gravitazione.

3.                Per misurare l’effettiva novità costituita dalla rivoluzione scientifica bisogna

3.1.            richiamare il precedente modello di fisica (scienza della natura), essenzialmente quello aristotelico, per sottolinearne le differenze dal paradigma attuale;

3.2.            studiare l’origine dei metodi e dei concetti nuovi per vedere se si tratti veramente di novità assolute (tesi convenzionale, essoterica) oppure se tali concetti e metodi non fossero, almeno in parte, già ben noti (tesi segreta, esoterica).

4.                Senz’altro il paradigma aristotelico[4], prevalente nel tardo Medioevo e nella prima età moderna, non ha favorito, per certi suoi aspetti, la nascita della nuova scienza (le cui premesse, come si cercherà di dimostrare, sono comunque greche).

4.1.            La maggiore resistenza degli aristotelici nei confronti del modo nuovo di guardare alla natura (fondato su un modello di tipo matematico o quantitativo)  è dovuta al fatto che nelle prospettiva aristotelica la fisica terrestre, distinta dall’astronomia, adotta un modello essenzialmente qualitativo, basato su nozioni come sostanza e accidente, potenza e atto, cause finali e formali ecc.

4.1.1.                  Proposizione descrittive come “i corpi pesanti cadono verso il basso” o “un oggetto di legno galleggia sull’acqua” sono considerate a pieno titolo come asserzioni di fisica, cioè di scienza (o filosofia) della natura (physis = natura), senza bisogno di ricorrere a misure di tipo quantitativo (implicanti nozioni come quelle di massa, volume, densità, accelerazione ecc.), considerate anzi inadeguate all’imperfetto mondo sublunare.

4.2.            Tuttavia non bisogna dimenticare che presso lo stesso Aristotele l’astronomia ha già carattere quantitativo e matematico e altre scienze, oggi considerate a pieno titolo porzioni della fisica, erano già diffuse presso i Greci, nella loro forma matematica, appunto come rami della stessa matematica, quali: statica, idraulica, pneumatica ecc.

4.2.1.                  Nel Medioevo, del resto, accanto alle scienze del trivio (grammatica, retorica, logica), vengono studiate le scienze del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica), le ultime due delle quali costituiscono già un’applicazione della matematica alla conoscenza della natura.

4.3.            L’importanza della matematica nello studio della natura proviene allo stesso Aristotele e al Medioevo (e, quindi, tramite Galileo, alla moderna scienza della natura), tramite Agostino e altri autori cristiani, dalla tradizione pitagorico-platonica.

4.3.1.                  Secondo Pitagora (VI sec. a. C.) fondamento della natura sono i numeri e le figure geometriche.

4.3.2.                  Prima della rivoluzione scientifica questa idea permette già ai pittori del Rinascimento italiano di concepire la prospettiva, ossia l’idea di un reticolo matematico soggiacente alle diverse forme e figure che possiamo osservare e di cui facciamo esperienza.

 

5.                Se ora veniamo al moderno concetto di massa per scoprirne l’origine possiamo misurare anche da questo punto di vista la novità rappresentata dalla nuova scienza della natura[5].

5.1.            Per massa la scienza delle origini ha inteso la quantità di materia contenuta in un corpo, che possiamo esprimere intuitivamente come il prodotto del volume per la densità media di materia del corpo stesso.

5.1.1.                  La nozione di densità è importante perché permette di capire come due corpi che occupano lo stesso spazio possano avere masse diverse.

5.2.            Apparentemente l’idea che si possa misurare la quantità di materia contenuta in un corpo è abbastanza immediata.

5.2.1.                  Ma così non è. La nozione moderna di materia, infatti, è il frutto di una lunga elaborazione.

5.3.            Nel paradigma aristotelico le cose sono fatte di forma e di materia: ciò che occupa lo spazio, quindi, non è tanto la materia (p.e il marmo) quanto la forma (p.e. la statua).

5.3.1.                  Ma se la materia non occupa spazio ed è naturalmente informe, essa non ha volume; quindi non se ne può calcolare la quantità.

5.3.2.                  Inoltre Aristotele non possiede neppure una nozione corretta di peso specifico (alla base della nozione di densità), perché pensa che il peso di un corpo aumenti esponenzialmente (e non proporzionalmente) all’aumentare del suo volume: in termini moderni, quindi, si direbbe che peso specifico e, quindi, densità sarebbero grandezze che sono funzione del volume del corpo!

5.3.3.                  Infine la materia, per Aristotele, è per definizione passiva. Essa, nella proposizione, può figurare come oggetto o “complemento”, mai come soggetto (p.e. “lo scultore scolpisce il marmo”, “qualcuno mi colpisce con un bastone di ferro” ecc.).

5.3.3.1.              In generale, nelle lingue antiche, il genere neutro designa per lo più gli oggetti inanimati, ossia quelle cose (un sasso, un martello ecc.) che non possono agire da sole, ma solo come strumenti di esseri viventi (di genere maschile e femminile): per questa ragione i nomi neutri vengono espressi al nominativo (il caso del soggetto), le rare volte in cui questo avviene (in genere in senso traslato o metaforico), nella stessa forma dell’accusativo (il caso del complemento oggetto): perché, si può ritenere, anticamente non possedevano affatto un nominativo (se “un sasso mi colpisce” è solo perché “qualcuno mi colpisce con un sasso” dal momento che i sassi, essendo inanimati, non agiscono da soli!).

5.3.3.1.1..                   Le sostanze inanimate hanno una forma, ma vi prevale la materia, la passività: per questo non agiscono. La loro forma, a differenza che nei viventi, non è la loro anima.

5.3.3.2.              Quindi, in generale, la materia non agisce, ma subisce l’azione: perciò, dal punto di vista aristotelico, se un sasso è scagliato contro qualcuno, la forza che esso esercita su costui non dipenderà dalla sua “massa inerziale” (più o meno grande), ma dalla forza stessa con cui qualcuno l’ha scagliato: la materia di cui il sasso è costituito non può esercitare alcun tipo di forza, né offrire alcun tipo di resistenza (forza e resistenza che, semmai, dipendono dalla sola forma della cosa).

5.4.            Nel paradigma concorrente, pitagorico-platonico (a cui appartiene, p.e., il grande studioso Archimede di Siracusa), si ritiene che il fondamento della natura percepibile sia, invece, non tanto la materia informe, quanto lo spazio matematico, tridimensionale, esteso (secondo una prospettiva ripresa dall’idea galileiana dell’universo come libro i cui caratteri sono geometrici e la nozione cartesiana e spinoziana  di estensione).

5.4.1.                  Tuttavia per avvicinarci al concetto di massa occorre distinguere dal volume occupato da un corpo questo corpo stesso la cui materia può avere densità diverse (a parità di volume).

5.4.2.                  A questo scopo giova l’idea stoica dell’antitipìa, cioè dell’impenetrabilità dei corpi, ripresa da Leibniz per distinguere, contro Cartesio, materia e spazio.

5.4.3.                  Gli stoici, inoltre,  che negano l’esistenza di cose immateriali come l’anima, attribuiscono ai corpi (le uniche “cose che sono” in senso stretto) la facoltà di agire e patire (non solo, quindi, la proprietà di patire, cioè di subire l’azione, come la materia aristotelica); da questa idea potrà svilupparsi quella di un’azione che un corpo può esercitare su un altro in funzione della sua massa (inerziale e gravitazionale).

 

5.5.            Per arrivare a una vera e propria nozione di quantità di materia bisogna passare, curiosamente, per il miracolo eucaristico.

5.5.1.                  Durante l’evento della transustanziazione per il quale il pane e il vino dell’ostia consacrata si trasformano nel corpo e nel sangue di Cristo, dal punto di vista aristotelico-tomistico si può dire che ciò che cambia è l’essenza (o natura o forma) della cosa, ma non certo le sue qualità (colore, sapore ecc.).

5.5.2.                  La domanda è? queste qualità a quale sostrato invariante aderiscono? non all’essenza che muta, ma alla “quantità della materia” (Egidio Romano) che rimane costante.

5.5.2.1.              Pur essendo quella di Egidio una dottrina di derivazione aristotelica, difficilmente essa sarebbe stata esprimibile senza le nozioni, di origine rispettivamente platonica e storica, di tridimensionalità e impenetrabilità (antitypia) della materia.

 

6.                Se ora veniamo al moderno concetto di forza per scoprirne l’origine possiamo misurare anche da questo punto di vista la novità rappresentata dalla nuova scienza della natura[6].

6.1.            A noi sembra ovvio immaginare che oggetti inanimati (un sasso, un pianeta) esercitino forze su altri oggetti inanimati (gravitazionale, d’urto ecc.), ma, a ben pensarci, si tratta di una nozione quasi magica.

6.1.1.                  Anticamente, assumendo il paradigma antropomorfico o zoomorfico della forza, si riteneva che solo esseri animati potessero esercitare forze (uomini, buoi ecc.).

6.1.1.1.              All’interno di questo paradigma, di origine preistorica, la forza p.e. del vento o dei vulcani viene concepita

6.1.1.1.1..                   o come quella esercitata da divinità o potenze viventi che ne sono responsabili[7],

6.1.1.2.1..                   oppure, più modernamente, come una forza apparente (Cartesio), risolvibile come concatenazione di moti inerziali (principio della costanza della quantità di moto).

6.1.1.2.              L’idea newtoniana che masse (dunque materia inanimata!) esercitino forza, per di più a distanza!, direttamente proporzionali alla rispettiva quantità di materia e inversamente proporzionali al quadrato della reciproca distanze, viene salutata dai cartesiani del continente europeo come la riproposizione di un’idea magica che la scienza avrebbe dovuto abbandonare[8].

6.2.            Anche Aristotele, a ben vedere, rimane all’interno del paradigma zoomorfico della forza.

6.2.1.                  I moti naturali dei corpi dall’alto verso basso (pesanti) o dal basso verso l’alto (leggeri) (come il moto rettilineo uniforme della fisica moderna), in quanto naturali, non richiedono l’applicazione di forze.

6.2.2.                  Solo i moti violenti, ossia contro natura, come il sollevamento di un grave dal suolo, richiedono l’applicazione di una forza, dunque l’azione, diretta o indiretta, di un vivente (uomo, bue, cavallo ecc.): Aristotele, in particolare, distingue forze di trazione e forze di spinta, che per agire devono essere a contatto con l’oggetto mosso.

6.2.2.1.              Problema particolare è quello di spiegare il moto violento di un corpo spinto da una forza che poi lascia il corpo (per esempio un sasso scagliato verso l’alto per la porzione di traiettoria in cui esso continua a salire dopo avere lasciato la mano).

6.2.2.1.1..                   La spiegazione aristotelica ricorre all’azione dell’aria mossa dal grave e dal suo effetto meccanico di prosecuzione della spinta iniziale.

6.2.2.2.1..                   Nel corso del Medioevo, a partire da un’intuizione di Giovanni Filopono, si diffonde la teoria dell’impetus, in base alla quale la forza impressa inizialmente viene trasmessa direttamente al grave (e non al mezzo, l’aria) e “si scarica” in un certo tempo (anticipazione del principio di inerzia).

6.2.3.                  Gli astri, infine, si muovono di moto circolare uniforme, che è il moto naturale tipico del cielo (della materia incorruttibile o etere)[9].

6.2.3.1.              Questi moti possono essere interpretati come l’effetto dell’azione di intelligenze planetarie (55 divinità minori), che in età cristiana (p.e. in Dante) saranno interpretate come angeli.

6.2.4.                  Un problema particolare è dato dal moto dei viventi: quando cammino esercito una forza su me stesso? e si tratta di spinta o trazione?

6.2.4.1.              Secondo Aristotele l’automovimento non implica l’esercizio di forze, ma è a sua volta una forma di moto naturale: la forza in senso stretto è l’azione di un vivente su qualcosa di inanimato diverso da se stesso e dal proprio corpo (azione meccanica, anticipazione della nozione moderna di forza).

6.4.2.1.1..                   I pianeti, quindi, non sono “vivi”, ma sono mossi da divinità che li spingono.

6.2.4.2.              Invece secondo Platone l’anima muove il proprio corpo come qualunque altro oggetto inanimato ed esercita una forza su di esso.

6.4.2.1.2..                   In questa prospettiva i pianeti possono essere concepiti come “animali celesti”, responsabili del proprio movimento stesso.

6.2.5.                  Dal punto di vista matematico è sempre costante, secondo Aristotele, il rapporto tra il prodotto della forza impressa su un corpo e il tempo durante il quale essa viene esercitata e il prodotto della resistenza offerta a quest’azione e lo spazio percorso dal corpo (k=Ft/Rs).

6.2.5.1.              Sulla base di questa relazione risulta, ad esempio, che se aumento la forza aumenta proporzionalmente la velocità a parità di resistenza (v=F/R).

6.2.5.2.              A resistenza nulla (nell’ipotesi di uno spazio vuoto) la velocità dovrebbe essere infinita (moto istantaneo).

6.5.2.1.2..                   Dal momento che ciò non è dato Aristotele dimostra per assurdo che il vuoto è impossibile (la resistenza al moto non può mai essere uguale a zero).

6.2.5.3.              La formula aristotelica viene discussa e modificata nei secoli in vario modo, a dimostrazione del fatto che una ricerca di fisica matematica, anche per quanto riguarda l’imperfetto mondo terrestre, non è mai cessata del tutto.

6.5.2.1.3..                   Secondo Filopono, ad esempio, la velocità dipende non dal rapporto tra forza e resistenza, ma dalla loro differenza (v= F-R)

6.5.2.2.3..                   Secondo Tommaso Bradwardine la velocità sarebbe espressa addirittura dal logaritmo dal rapporto tra forza e resistenza (v=log(F/R)).

6.3.            Per arrivare a concepire l’azione a distanza di corpi inanimati (e rompere il paradigma zoomorfico) bisogna seguire diversi passaggi.

6.3.1.                  Nella concezione astrologica si fornisce una spiegazione della stessa teoria aristotelica dei moti naturali.

6.3.1.1.              La tendenza del grave a cadere (cioè a raggiungere il proprio “luogo naturale”, la terra) non è forse l’effetto dell’azione a distanza di una forza di attrazione?

6.1.3.1.1..                   Se ammettiamo che il simile attragga il simile (e respinga il diverso) anche a distanza, come avviene nella concezione astrologica, anche il moto di caduta può essere spiegato in termini di forza (la terra attira verso il basso il sasso perché gli è simile, così come le stelle attirano verso l’alto le fiamme).

6.3.1.1.1.1.                 Astrologicamente il segno zodiacale (p.e. un segno di fuoco) influenza le cose fatte dello stesso elemento sulla terra (il fuoco, le cose pervase da calore) o le cose che si possono collegare metaforicamente con il segno (le persone nate in determinati giorni, le persone “focose” ecc.).

6.3.1.1.1.2.                 Abbiamo qui un esempio “magico” di azione a distanza tra corpi simili, che anticipa la nozione di gravitazione universale di Newton (nella quale l’elemento “simile” che si attrae a distanza è la stessa massa dei corpi).

6.3.2.                  Anche la teoria dell’impetus consente di concepire come una forza agisca a distanza (dopo aver rilasciato il corpo a cui si applicava).

 

$       Cfr la scheda sulla fisica di Aristotele

$       Cfr. la scheda sulle nozioni di massa e di forza.

$       Hai risposto alle domande relative.

 

7.                Ma la “scoperta” fondamentale che ha dato l’avvio alla cosiddetta rivoluzione scientifica, permettendo anche la moderna messa a punto delle nozioni di forza e di massa, è stata quella dell’eliocentrismo (ossia che il Sole e non la Terra è al centro del sistema planetario).

7.1.            Lo “scopritore” dell’eliocentrismo è considerato l’astronomo polacco Copernico che nel 1453 espone la sua dottrina nel testo De revolutionibus orbium coelestium  (Sulle rivoluzioni dei pianeti).

7.1.1.                  Ma Copernico non fa altro che riproporre la teoria dell’astronomo greco Aristarco di Samo, la quale gli permette di risolvere (“a tavolino”, ossia senza ricorrere a particolari osservazioni empiriche) in modo brillante ed elegante (dal punto di vista matematico) i problemi e le aporie del sistema cosiddetto aristotelico-tolemaico.

7.1.1.1.              Secondo Aristotele la Terra è al centro dell’universo circondata dalle sfere concentriche di Luna, Sole e “stelle fisse”, che si muovono di moto circolare uniforme (e compiono una rivoluzione completa rispettivamente in un mese, un anno[10] e un giorno).

7.1.1.1.1..                   Tra la sfera del Sole e quella delle stelle (firmamento) si muovono i pianeti, ma il loro moto è apparentemente irregolare (planetes, in greco, significa appunto “stella errante”), perché combina moti nella stessa direzione della Luna e del Sole (rispetto allo sfondo delle stelle fisse) e moti “retrogradi”.

7.1.1.1.1.1.                 I platonici e altri autori antichi consideravano questi astri “animali celesti” (cioè esseri viventi mossi da un’anima razionale, veri e propri dèi) proprio per i loro moti che li facevano sembrare quasi vivi (lo “Zodiaco”, ossia la fascia immaginaria del cielo entro cui essi si muovono, è appunto la fascia degli “animali”, da zoon, animale cfr. “giardino zoologico”, “zoologia” ecc.).

7.1.1.1.1.2.                 Ma questi moti possono essere interpretati come moti apparenti  che risultano dalla combinazione di moti reali, perfettamente regolari (circolari uniformi).

7.1.1.2.1..                   Secondo il modello matematico aristotelico[11] è necessario ipotizzare tra la Terra e il firmamento 55 sfere concentriche e invisibili, dalla combinazione dei moti delle quali (circolari uniformi) deriverebbe il moto (apparentemente irregolare) dei pianeti.

7.1.1.1.2.1.                 Il problema di questo modello è che esso non rende conto della variazione di luminosità dei pianeti principali (soprattutto di Venere e di Marte), che può essere spiegato solo da una variazione della loro distanza dalla Terra.

7.1.1.3.1..                   Per risolvere questo problema l’astronomo Tolomeo elabora il suo modello. Al posto delle 55 sfere aristoteliche Tolomeo attribuisce a ciascun pianeta una sola sfera, ma, per rendere conto sia dei moti retrogradi sia della variazione di luminosità/distanza, introduce gli epicicli: i pianeti non compiono la loro rivoluzione direttamente intorno alla Terra ma intorno a un punto collocato sull’orbita che, a sua volta, compie la sua rivoluzione intorno alla Terra.

7.1.1.1.3.1.                 Il problema del modello tolemaico è però che orbite ed epicicli non possono più essere costituiti di etere o materia incorruttibile, come nel modello aristotelico, perché questa, essendo impenetrabile, non consentirebbe la doppia rotazione, ma devono essere pure linee matematiche: bisognerebbe, perciò, reintrodurre il vuoto (che Aristotele confuta) ed ammettere che il moto effettivo del pianeta (al di là della sua descrizione matematica) sia effettivamente irregolare e non circolare uniforme (una sorta di moto a elica), richiedendo il ricorso a forze ignote.

7.1.1.4.1..                   Nel modello copernicano tutti questi problemi sono risolti come segue.

7.1.1.1.4.1.                 Se il Sole è immobile al centro del sistema, i pianeti e la Terra possono finalmente muoversi di moto uniforme lungo orbite perfettamente circolari, senza le complicazioni introdotte dalle sfere aristoteliche e dagli epicicli tolemaici.

7.1.1.1.4.2.                 Tuttavia anche il modello copernicano presenta dei problemi.

7.1.1.1.4.2.1.                                 Come dimostrerà Keplero, sulla base delle attente osservazioni di Tycho Brahe, le orbite dei pianeti non possono essere circolari, ma devono essere ellittiche (il che riproporrà il problema della necessità di supporre forze di attrazione e repulsione).

7.1.1.1.4.2.2.                                 Il moto annuale della Terra intorno al Sole dovrebbe generare una variazione periodica dell’angolo di parallasse tra la Terra e due stelle fisse scelte a piacere sulla superficie del firmamento, cosa che però non si osserva.

7.1.1.1.4.2.3.                                 Il moto della Terra intorno al proprio asse dovrebbe essere percepito dagli uomini:

7.1.1.1.4.2.3.1.                             dovrebbe spirare un forte vento nella direzione opposta al moto della superficie terrestre, trascinando con sé tutti i corpi mobili (noi lo dovremmo percepire come percepiamo un vento apparente quando ci muoviamo su un carro o su una nave in una certa direzione);

7.1.1.1.4.2.3.2.                             un oggetto lasciato cadere dall’alto dovrebbe descrivere una traiettoria obliqua in direzione opposta a quella del moto della Terra.

 

8.                Galileo Galilei, che ignora ancora che le orbite dei pianeti sono ellittiche ed è erroneamente convinto, come Copernico e Aristotele, che il moto circolare uniforme, essendo naturale, e non accelerato, non richieda l’azione di particolari forze motrici, difende il modello copernicano sia contro le obiezioni dei teologi (fondate su argomentazioni tratte dalla Bibbia, ossia sul principio di autorità), sia contro quelle dei filosofi aristotelici (fondate su considerazioni di fisica).

8.1.            Per svolgere la sua difesa contro le obiezioni dei fisici aristotelici Galileo, quasi senza accorgersene, introduce due fondamentali principi della fisica moderna (tra loro strettamente connessi):

8.1.1.                  il principio di inerzia e

8.1.2.                  il principio della relatività del moto.

8.2.            Contro l’obiezione che moto della Terra intorno al proprio asse dovrebbe essere percepito dagli uomini

8.2.1.1.              perché dovrebbe spirare un forte vento nella direzione opposta al moto della superficie terrestre, trascinando con sé tutti i corpi mobili (noi lo dovremmo percepire come percepiamo un vento apparente quando ci muoviamo su un carro o su una nave in una certa direzione);

8.2.1.2.              inoltre un oggetto lasciato cadere dall’alto dovrebbe descrivere una traiettoria obliqua in direzione opposta a quella del moto della Terra;

8.2.2.                  Galileo argomenta attraverso l’esempio (che non è un esperimento, ma un appello all’esperienza e al senso comune) della nave: chi si trovasse nella stiva di un nave che si muovesse di moto rettilineo uniforme, senza subire accelerazioni, decelerazioni, perturbazioni di alcun tipo, non saprebbe dire se la nave si muove o è ferma: analogamente, chi si trova sulla superficie della Terra non può sapere se la Terra ruoti o meno sul proprio asse perché tutti gli oggetti collocati sulla superficie, compresa l’atmosfera, sono solidali con il moto terrestre[12].

8.2.2.1.              Si tratta della prima formulazione del principio fondamentale della relatività del moto (abbandonato da Newton e riscoperto da Einstein).

8.2.3.                  Presupposto fondamentale di questo principio è il principio di inerzia, secondo cui un corpo che si muove di moto rettilineo uniforme (secondo Galileo, erroneamente, anche circolare) persevera nel proprio moto (e, quindi, mantiene la propria velocità) se non subisce l’azione di forze esterne (per esempio d’attrito o di resistenza).

8.2.3.1.              Anche questo principio non viene dimostrato da Galileo ricorrendo ad esperimenti, in senso moderno.

8.3.2.1.1..                   Del resto sarebbe stato impossibile: gli esperimenti, non potendosi annullare del tutto l’attrito e la resistenza dell’aria, avrebbero potuto venire interpretati in senso aristotelico: il corpo prima o poi si sarebbe fermato e questo avrebbe potuto essere inteso non come l’effetto di una forza di resistenza ma come il naturale esaurimento dell’impetus iniziale (o dell’effetto della retroazione dell’aria mossa).

8.3.2.2.1..                   Galileo ragiona più o meno come segue. Se un corpo sferico in caduta libera accelera, lo stesso corpo, collocato su un piano inclinato, tenderà a rotolare con accelerazione inferiore a quella che avrebbe in caduta libera: a mano a mano che riduco l’angolo di inclinazione del piano, diminuirà l’accelerazione del corpo: ad angolo di inclinazione pari a 0 (ossia su un piano perfettamente orizzontale) l’accelerazione sarà nulla: ma questo vuol dire che ciò che persiste come costante è la pura velocità del corpo, ossia il suo moto inerziale.

8.2.3.1.2.1.                 Come si può notare, si tratta di un ragionamento quasi-geometrico, per il quale la “verifica sperimentale” appare quasi superflua.

8.3.2.3.1..                   Analogo esperimento immaginario è quello che è servito a Galileo per dimostrare (per assurdo) che due corpi di peso diverso, lasciati cadere dalla stessa altezza, raggiungono il suolo nello stesso tempo (esperimento cosiddetto della “torre di Pisa”).

8.2.3.1.3.1.                 Galileo, senza bisogno di fare esperimenti (che data la resistenza dell’aria diversa a seconda della forma dei corpi avrebbero potuto smentirlo!) ragiona come segue:

8.2.3.1.3.1.1.                                 se si congettura, secondo il senso comune, che il corpo più pesante raggiunga il suolo prima di quello più leggero si produce un’aporia: unendo , infatti, i due corpi si avrà che

8.2.3.1.3.1.1.1.                             per un verso l’insieme dei due corpi, assommando i pesi di ciascuno, dovrebbe raggiungere il suolo in meno tempo di quello più pesante dei due;

8.2.3.1.3.1.1.2.                             per altro verso il “freno” rappresentato per il corpo più pesante da quello più leggere (che, di per sé, cadrebbe con accelerazione inferiore) dovrebbe fare sì che i due corpi uniti raggiungano il suolo in più tempo di quello più pesante:

8.2.3.1.3.1.2.                                 dal momento che  non possono darsi contemporaneamente entrambe le soluzioni resta che i due corpi cadano comunque al suolo nello stesso tempo, sia uniti che divisi.

8.2.4.                  Si noti che l’intero Dialogo sui massimi sistemi del 1632, in cui Galileo difende la teoria copernicana (e, senza quasi volerlo, fonda la fisica moderna esponendo i principi cardine della cinematica classica), contiene ragionamenti, critiche al principio di autorità e appelli all’esperienza comune, ma nessun resoconto di esperimento (né tantomeno l’indicazione di come replicarlo in laboratorio).

8.3.            In generale il cosiddetto “metodo galileiano” (partire da un’ipotesi, verificarla sperimentalmente, trasformarla in legge di natura) non è attestato come tale in Galileo, ma è piuttosto un’interpretazione anacronistica data nell’Ottocento, maturata in un clima culturale positivistico, segnato dall’importanza assegnata al metodo induttivo e alla ricerca empirica.

8.3.1.                  Galileo (“platonico”, come sostiene Koyré) si convince dell’ipotesi copernicana per la sua coerenza e bellezza.

8.3.2.                  L’argomenta filosoficamente difendendola con ragionamenti per assurdo e, in generale, di ordine prevalentemente matematico-razionale, non sperimentale (le “matematiche dimostrazioni”), e con appelli all’esperienza comune (cfr. l’esempio della nave, sono le “sensate esperienze”).

8.3.3.                  Certamente, alcune osservazioni e scoperte (come quelle celebri delle macchie solari e dei crateri lunari, così come dei satelliti di Giove), peraltro piuttosto casuali, rinforzano la teoria (che, secondo Galileo, reggerebbe comunque) con argomenti ulteriori, ma, per Galileo, non sono esse a dimostrarla  nel senso che noi diamo comunemente a questo termine.

8.3.3.1.              Si ha l’impressione che Galileo si appelli a queste ulteriori osservazioni per corroborare la sua teoria, soprattutto in vista della minaccia rappresentata dall’Inquisizione romana (per non fare la fine di Giordano Bruno: questa è la tesi implicita, ad esempio, nel film Galileo, di Liliana Cavani); ma che personalmente ritenga sufficiente l’argomentazione matematica[13].

8.3.3.2.              Questa ricostruzione dell’immagine di Galileo, basata sulla seduzione esercitata su di lui dalle matematiche, spiega molto meglio come mai filosofi di poco posteriori e quasi contemporanei come Cartesio abbiano ignorato quasi del tutto la componente sperimentale del metodo scientifico, esaltando viceversa proprio quella matematica.

8.4.            Dopo avere messo in discussione la normale presentazione di Galileo e del suo “metodo” scientifico, domandiamoci ora se l’attribuzione a lui delle scoperte dell’eliocentrismo, del principio di inerzia e di quello della relatività del moto sia del tutto corretta, o se egli abbia a sua volta attinto ad autori precedenti.

 

$       Cfr cap. II, §§ 2.3-2.5 (Galileo) del manuale

$       Cfr. il testo di Giordano Bruno

$       Hai risposto alle prime 4 domande poste in calce al testo...

 

8.5.          Giordano Bruno, arso vivo nel 1600 per le sue concezioni copernicane e neo-pagane (panteiste), è un importante “precursore” della rivoluzione scientifica, soprattutto per quanto riguarda la scoperta dell’infinità dell’universo (oggi diremmo: della sua illimitatezza) e della relatività del moto.

8.5.1.               Nella Cena delle ceneri (1583) Bruno

8.5.1.1.          difende il valore della teoria copernicana come dottrina fisica e non solo come mera ipotesi matematica;

8.5.1.2.          confuta la tesi degli aristotelici in base a cui la Terra sarebbe immobile, al centro dell’universo, sostenendone l’arbitrarietà;

8.5.1.3.          andando oltre Copernico argomenta l’infinità dell’universo

8.1.5.1.3..              in quanto effetto infinito di causa onnipotente[14]

8.1.5.2.3..              e ricorrendo all’argomento della parallasse[15];

8.5.1.4.          confuta l’altra tesi, tipicamente aristotelica, in base a cui la Terra non ruoterebbe intorno al proprio asse (perché, in questa ipotesi, dovremmo registrare il moto contrario delle nuvole, dell’aria e degli oggetti non fissati al suolo),

8.1.5.1.4..              ricorrendo a due argomenti:

8.5.1.4.1.1.           in primo luogo per “Terra” Bruno dice di intendere tutto “l’animale” o la “macchina”, quindi comprendendovi la stessa atmosfera e quanto vi è racchiuso;

8.5.1.4.1.2.           in secondo luogo introduce la relatività del moto, facendo l’esempio della nave (un grave lasciato cadere dal pennone di una nave in movimento apparirà cadere verticalmente a un osservatore collocato sulla nave, mentre risulterà cadere obliquamente per un osservatore collocato a terra: analogamente se tutto ciò che si muove si muove alla stessa velocità del suolo noi non ce ne potremmo accorgere).

8.5.1.5.          Si può notare che in Bruno la relatività del moto è, più propriamente, una relatività dell’apparenza del moto: egli dimostra soltanto che noi non ci accorgeremmo del moto della Terra (così come di quello della nave), non che esso sia del tutto equivalente a uno stato di quiete (così come la nave non è in quiete, in senso assoluto, anche se ciò che vi cade vi cade come se lo fosse).

8.5.1.6.          Inoltre Bruno sfiora il principio di inerzia senza toccarlo: il grave lasciato cadere dalla nave si muove nella stessa direzione della nave, secondo Bruno, non per pura inerzia, ma perché gli sarebbe stata impressa la stessa virtù (forza) della nave (teoria dell’impetus).

 

8.6.          Prima di Bruno, nel XV sec., Niccolò Cusano, cardinale della Chiesa romana, padre conciliarista al concilio di Costanza, sostenne dottrine non del tutto dissimili da quelle di Bruno, di analoga matrice neoplatonica. Se egli non fu condannato dalla Chiesa lo si dovette, verosimilmente, alla diversa temperie culturale, lontanissima da quella della Controriforma e molto più disponibile agli “esperimenti di pensiero” (che caratterizzeranno poi tutto l’Umanesimo e il Rinascimento).

8.6.1.               In particolare Cusano sostiene il movimento della Terra e l’infinità dell’universo (come effetto di una causa infinita).

8.6.1.1.          Dio può essere paragonato a un cerchio di raggio infinito:

8.1.6.1.1..              la circonferenza equivale a una linea retta che interseca il piano in tutte le direzioni;

8.1.6.2.1..              il centro del cerchio è ovunque e in nessun luogo.

8.6.1.2.          Altre implicazioni:

8.1.6.1.2..              ogni punto dell’universo contiene interamente Dio e Dio contiene in ogni suo punto l’intero universo[16];

8.1.6.2.2..              ogni “parte” del tutto è infinta come il tutto;

8.1.6.3.2..              ogni cosa è in ogni cosa (secondo l’antica dottrina di Anassagora, V sec. a. C.: “tutto in tutto”);

8.1.6.4.2..              ogni cosa è in relazione con ogni altra.

8.6.1.3.          Sviluppando queste ultime implicazioni possiamo comprendere meglio il fondamento filosofico di dottrine che nel Rinascimento conoscono una grande fioritura come quelle della magia e dell’astrologia, antesignane della rivoluzione scientifica (e, in particolare, del principio della gravitazione universale).

8.1.6.1.3..              L’astrologia presuppone una relazione tra corpi che agiscono a distanze enormi (le costellazioni e gli individui, le parti del corpo e i metalli ecc.) sulla base del principio della similitudine e della differenza: l’abolizione virtuale della distanza è coerente con le implicazioni di un cosmo infinito[17].

8.1.6.2.3..              La magia unisce a tali presupposti l’idea che l’uomo possa agire a distanza, sempre sulla base di analogie tra corpi diversi, sfruttando le potenzialità già messe in luce dall’astrologia.

8.1.6.3.3..              Il principio della gravitazione universale può essere visto come la realizzazione scientifica dell’idea dell’azione a distanza (a cui seguirà nel Settecento l’elaborazione della teoria del campo).

 

9.               Come si è visto, dunque, Galilei ha avuto dei “precursori” illustri, anche se meno conosciuti di lui.

9.1.          Accanto a Cusano e Bruno, dovremmo citare almeno Leonardo da Vinci, oltre che, ovviamente, lo stesso Copernico.

10.            Tuttavia, se seguiamo le tesi di Lucio Russo, l’intera rivoluzione culturale a cui si è assistito nel Rinascimento e che, con Galileo e Keplero, avrebbe dato origine alla rivoluzione scientifica è dipesa dalla riscoperta dei classici, latini e, soprattutto, greci.

10.1.       Si è visto che Copernico  riconosce che il suo sistema ripropone quello di Aristarco di Samo (III sec. a. C.), così come sia Bruno che Galileo riconoscono il loro debito verso i Greci, soprattutto di quelli che appartengono alla tradizione pitagorico-platonica (ossia che esaltano la funzione delle matematiche nel sapere scientifico), come Archimede di Siracusa (sempre III sec. a. C.).

10.2.       Estendendo il discorso a tutta la cultura greca classica ed ellenistica si può forse scoprire non soltanto che i Greci avrebbero “precorso” i moderni, ma che anzi essi li avrebbero direttamente ispirati e informati (tramite i loro scritti) di una rivoluzione scientifica sostanzialmente già avvenuta in epoca antica e poi dimenticata.

10.2.1.            Dal nostro punto di vista, prendere sul serio questo “segreto” rivelatoci da Russo, significa non solo svolgere un’operazione culturale di “smascheramento”, ma anche e soprattutto poterci interrogare, in maniera più radicale e filosofica di quanto non ci consentano Galileo e i moderni, sull’essenza del metodo scientifico, così come i Greci lo concepirono.

 

$       Cfr cap. II, §§ 2.3-2.5 (Galileo) del manuale

$       Cfr. il testo di Giordano Bruno

$       la sintesi tratta da Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata (1999), pp. 5-9.

$       Quale il metodo scientifico presso i Greci?

 

11.            Come la scheda sul libro di Russo illustra dettagliatamente,  la vera, grande scoperta dei Greci è proprio quella del metodo.

11.1.       I Greci distinguono la matematica dalla fisica differentemente da noi.

11.1.1.            Per i Greci matematico è qualunque sapere che procede da ipotesi e può, pertanto, salvare i fenomeni[18], mentre la fisica (o la filosofia o la dialettica)  pretende di conoscere i principi veri che permetterebbero di dimostrare che sia vero ciò che, in un primo tempo, era stato ammesso per ipotesi (o ex suppositione).

11.1.2.            Questa distinzione, che si ritrova anche in Galileo, sposta il problema della dimostrazione scientifica

11.1.2.1.       dall’ambito della sperimentazione (che può solo confermare che una certa ipotesi “salvi” i fenomeni, ma non dimostrarne la verità assoluta: altre ipotesi, infatti, potrebbero accordarsi altrettanto bene con l’esperienza), dove lo collochiamo comunemente oggi,

11.1.2.2.       a quello della fondazione filosofica (puramente razionale), che si vale, in genere, di argomentazioni circolari, come la dimostrazione per assurdo.

 

denominazione greca

denominazione moderna

 

matematiche

matematica pura

fisica[19] (cinematica, meccanica, idraulica, pneumatica, acustica ecc.)

muovono da ipotesi (anche plurime) e mirano a salvare i fenomeni;

si occupando di misure e non di sostanze

fisica[20]

dialettica

filosofia prima

filosofia, metafisica

ricercano o presuppongono principi assoluti e mirano alla verità;

si occupando di cause e sostanze (o essenze)

 

11.2.       Il paradosso, messo in luce dall’epistemologia contemporanea, è che quella che noi oggi chiamiamo “scienza”, per il suo carattere ipotetico-deduttivo (Popper), assomiglia molto più a ciò che i Greci chiamavano “matematica” (in senso lato) di quanto non assomigli a ciò che sia Aristotele, sia Newton intendevano per fisica o filosofia naturale.

11.2.1.            Sebbene, infatti, Newton, a differenza di Aristotele, si servisse di procedimenti matematici, egli, così come Aristotele, si faceva un punto d’onore di non “fingere ipotesi”, ma di scoprire veri e propri “principi”.

11.2.2.            Oggi siamo molto più scettici circa il potere della scienza di descrivere la realtà e ammettiamo volentieri che, servendosi di modelli, la scienza proponga piuttosto una ricostruzione ipotetica della natura (cioè verosimile, ma non necessariamente vera, come prova lo stesso progresso scientifico).

12.            Una figura complessa, sotto questo profilo, è costituita dal più grande scienziato (forse) di tutti i tempi, ossia da Galileo Galilei, che, quando parla del suo metodo, ne fornisce una descrizione non sempre coerente, a volte sembrando aderire alla prospettiva ipotetica dei Greci, altre volte cadendo nelle ingenuità del realismo di Newton.

 

$       Cfr. i 2 testi di Galileo, tratti rispettivamente dalla lettera a Fortunato Liceti e da quella a Benedetto Castelli, L7, T1 (Aristotele e i peripatetici) - T2 (Due rivelazioni)[21].

$       Cfr. cap. II, § 2.2 (Galileo) del manuale.

$       Quale il metodo scientifico di Galileo?

 

12.1.       Nella celebre lettera a Benedetto Castelli Galileo afferma che

12.1.1.            quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba essere posto in dubbio.

12.1.2.            Galileo, dunque, non sembra concepire,  qui e altrove, la dimostrazione matematica e la “verifica” fisica come parti di un unico procedimento dimostrativo, a differenza di quello che comunemente si pensa quando si parla di “metodo galileiano”, ma come due vie “autonome” di conoscenza [“o”... “o”...], delle quali egli sembra spesso privilegiare la prima, cioè quella puramente razionale.

12.1.2.1.       Il “metodo cosiddetto galileiano”, costruzione dell’epistemologia positivistica dell’Ottocento, prevede(rebbe) un “giro” dimostrativo basato sui seguenti passaggi:

12.2.1.1.1..           osservazione ingenua,

12.2.1.2.1..           ipotesi,

12.2.1.3.1..           verifica sperimentale,

12.2.1.4.1..           elaborazione della legge o teoria.

12.1.2.2.       Ma Galileo sembra considerare autosufficienti le “necessarie dimostrazioni” (cfr. esperimenti ideali, argomentazioni per assurdo), mentre invoca il soccorso delle “osservazioni” (“sensate esperienze”) soltanto a conferma o corroborazione della sua teoria,  ma, ad esempio, non mai a confutazione (ricorrendo all’argomento classico che spesso i “sensi ingannano”).

12.1.3.            La critica all’aristotelismo è fondamentalmente la seguente.

12.1.3.1.       Gli aristotelici tradiscono Aristotele perché si basano sulle sue teorie e non invece sul metodo aristotelico (basato su dimostrazioni ed esperienze) che darebbe ragione a Galileo.

12.1.4.            La critica all’interpretazione letterale della Bibbia (che confuterebbe la teoria copernicana) è fondamentalmente la seguente.

12.1.4.1.       La Bibbia non può essere interpretata sempre alle lettera, neppure quando parla di Dio!, altrimenti dovremmo ammettere che vi si trovano una serie di contraddizioni.

12.1.4.2.       A maggior ragione essa, allora, non andrà presa alla lettera quando si riferisce a “oggetti naturali”, pena il rischio che la “parola di Dio” possa essere smentita dall’esperienza.

 

$       Cfr. i 3 testi di Galileo, tratti dal Dialogo sui massimi sistemi e dalla lettera a Pierre de Carcavy, L11, T2 (Matematica e fisica); L12, T1 (Composizione e sperimentazione) - T2 (Un esperimento ideale).

$       Cfr. cap. II, § 2.7 (Galileo) del manuale.

$       Quale la differenza tra matematica e fisica in Galileo?

$       Come argomenta Galileo le sue teorie?

 

12.2.       Con il paradosso della “sfera materiale” Galileo, per bocca di Salviati, la sua controfigura nel Dialogo sui massimi sistemi, fa coincidere, per così dire, la dimostrazione matematica con la dimostrazione fisica.

12.2.1.            All’osservazione, che avrebbe potuto fare un greco, che nessuna sfera “empirica” o “materiale” può essere perfetta e, quindi, neppure tangente a un piano in un solo punto, Salviati replica che un oggetto materiale che fosse tangente a un piano in più punti non sarebbe più  un sfera! Un sfera, in quanto tale, materiale [cioè fisica] o ideale  [cioè matematica] che sia, se è davvero una sfera, è perfetta.

12.2.1.1.       Qui Galileo, a ben vedere, idealizza la realtà materiale, la materia stessa, attribuendole proprietà  matematiche che ancor oggi la fisica tende ad attribuire ad oggetti (invisibili!) come atomi, molecole, onde ecc., che essa si rappresenta come “perfetti”, completamente descrivibili dal punto di vista matematico e rappresentabili con disegni che li idealizzano (“palline colorate”, “cubetti” ecc.).

12.1.2.1.1..           Oggi si ritiene comunemente, ad esempio, che l’acqua sia fatta di molecole costituite da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, perfettamente regolari (anche se non osservabili neppure al microscopio elettronico). Eventuali impurità possono derivare dalla mescolanza di altre sostanze, che, tuttavia, non modificherebbero la struttura molecolare fine dell’acqua in quanto tale.

12.1.2.2.1..           Pochi sarebbero disposti ad affermare che la struttura molecolare dell’acqua e i “disegni” con cui essa è raffigurata siano delle semplici “ipotesi”, dei “modelli”, una “rappresentazione” umana arbitraria della sostanza, adottata  solo per “comodità” descrittiva (dunque sostituibili con altri purché comunque capaci di “salvare i fenomeni”).

12.3.       Quando qualche esperienza dovesse sembrare smentire un “modello matematico” della realtà, secondo Galileo, il modello stesso, ossia quanto argomentato ex suppositione, non ne riceve alcun danno, in quanto tale. Si tratterà, semmai, di capire se per caso i sensi ci abbiano ingannato, oppure quali fattori perturbanti (attrito, resistenza ecc.) abbiano disturbato i fenomeno osservato.

12.3.1.            Galileo sembra alludere alla funzione del modello matematico, per es. di quello relativo al moto di caduta dei gravi o al moto naturale uniforme, come presupposto di ogni possibile esperienza, più che come oggetto di diretta “verifica sperimentale”.

12.4.       Spesso, infine, Galileo sembra effettuare “esperimenti” puramente immaginari, come attesta il celebre esempio della nave, i quali, evidentemente, hanno il solo scopo di rinforzare un’evidenza che dovrebbe essere tale a priori.

 

$       Cfr. i 3 testi di Galileo, tratti rispettivamente dalla terza lettera a Welser, dal Saggiatore e dal Dialogo sui massimi sistemi, L9,T1 (Essenze e fenomeni) - T2 (Qualità oggettive e soggettive); L10, T1 (L’intendere umano e quello divino).

$       Quale l’oggetto specifico dell’indagine scientifica secondo Galileo?

$       Quale la differenza tra l’intendere umano e quello divino?

 

12.5.       L’oggetto specifico dell’indagine scientifica galileiana non è

12.5.1.            né l’essenza delle cose (p. e. la sostanza di cui sono fatte le nuvole), perché la sua definizione (p.e. “acqua”) non ci dice niente se non verbalmente (dal momento che dire che l’acqua delle nuvole è la stessa dei fiumi non ci dice molto circa la natura di tale sostanza);

12.5.2.            né le qualità cosiddette soggettive delle cose (colore, odore, sapore, calore ecc.), che dipendono esclusivamente dall’“animale” che le percepisce (nel nostro caso, l’“uomo”);

12.5.3.            ma sono soltanto le qualità oggettive, ossia le affezioni (o proprietà) matematiche delle cose.

12.5.3.1.       Vedremo che questa distinzione sarà messa in discussione da Kant (se le qualità soggettive dipendono dai nostri sensi, quelle cosiddette oggettive non dipenderanno pur sempre dal nostro intelletto?)

12.6.       L’intendere umano differisce da quello divino

12.6.1.            perché Dio conosce “tutto e subito”, si potrebbe dire, mentre

12.6.2.            l’uomo conosce solo una certa quantità di cose e una dopo l’altra.

12.7.       Tuttavia la conoscenza umana condivide con quella divina l’assolutezza quando si tratta di verità matematiche.

12.7.1.            Galileo non avverte la necessità di argomentare particolarmente questa dottrina, perché si tratta della riformulazione ad uso scientifico di principi della tradizione platonica (cfr. il riferimento al “non sapere” di Socrate).

 

$       Cfr. Cfr cap. II, § 2.1; 2.6; 2.8 (Galileo) del manuale.

 

12.8.       Il fatto che Galileo non fosse sempre consapevole dell’importanza del “momento sperimentale” non significa che questo non abbia giocato alcun ruolo.

12.8.1.            I casi della vita e del processo di Galileo, le sue scoperte astronomiche (avvenute sulla base di osservazioni), l’introduzione degli strumenti (come il cannocchiale) nella ricerca, attestano l’importanza, di fatto, della componente empirica nella “scienza” galileiana.

12.8.2.                La questione da discutere - anche ai giorni nostri - (in campo epistemologico) è quale sia esattamente il ruolo dell’esperienza rispetto alla teoria: di conferma, di confutazione, di corroborazione, di verifica, di stimolo alla ricerca matematica, di stimolo per la complicazione della modellistica matematica ecc.?

 

13.             Uno dei tratti che caratterizzano la moderna scienza della natura, per universale consenso, è  il rapporto con il metodo sperimentale.

13.1.          In Galileo e Cartesio, tuttavia, che pure ricorrono in diverse circostanze a procedimenti sperimentali e si sforzano sempre di “salvare i fenomeni” (contro il principio di autorità), persiste l’idea tipicamente greca e di origine platonica in base alla quale i sensi ingannano.

13.1.1.                Prevale, quindi, in questi autori l’insistenza sull’importanza del momento matematico e razionale della scienza.

13.2.          Fondatore del moderno metodo sperimentale può essere considerato il filosofo inglese Francesco Bacone (tra XVI e XVII secc.).

13.2.1.                Il valore della sua teoria è legata soprattutto all’introduzione del metodo dell’induzione scientifica (metodo delle tavole) e a una critica radicale della tradizione filosofica (teoria degli idoli).

13.2.2.                Il limite fondamentale della sua concezione è dato dal misconoscimento del valore delle matematiche e dal persistere di una visione qualitativa, di tipo essenzialmente aristotelico, della natura.

 

$       Cfr L5, T1

$       Hai fatto un esempio per ciascun tipo di idolo delle mente

$       Cfr L2, T2; L6, T2-T3

$       Hai fatto un esempio di esperimento utilizzando le 3 tavole

$       L3, T1; L4, T1

$       Quale la funzione del sapere per Bacone e come viene assolta?

$       Cfr cap. III del manuale (Bacone) [manuale in adozione: N. Abbagnano, G. Fornero, Autori di Fare filosofia, Milano, Paravia, 2000, vol. II]

 

14.             John  Locke è l’iniziatore del moderno empirismo inglese.

14.1.          L’opera fondamentale di Locke sono i Saggi sull’intelletto umano del 1690, scritti all’indomani dell’incoronazione di Guglielmo d’Orange a re d’Inghilterra (gloriosa rivoluzione).

14.2.          Locke riprende la tradizione empiristica risalente a Guglielmo d’Ockham (XIV sec.) e a Francesco Bacone (inizi XVII sec.), ma rinnovandola alla luce del dubbio radicale di Cartesio.

14.2.1.                Come Cartesio, Locke fa “tabula rasa” di tutte le nozioni derivanti dalla tradizione filosofica e culturale e parte dall’analisi dei contenuti della propria mente che anche lui chiama idee[22].

14.2.1.1.            Anche Locke, come Cartesio, ha il problema di fondare (rendere ragione, spiegare) la scienza su basi filosofiche: come è possibile una conoscenza certa della realtà?

14.2.2.                A differenza di Cartesio, però, Locke respinge l’ipotesi che vi siano idee innate o derivanti dalla sola ragione (anche Galileo credeva di poter dimostrare certe teorie ricorrendo alla sola ragione, con argomentazioni per assurdo). La conoscenza deriva dall’esperienza.

14.2.2.1.            L’esperienza si fonda sulle idee semplici, ossia idee che non si possono scomporre in altre idee (p.e. quella di rosso, verde, dolce, caldo, segmento, punto ecc.).

14.2.2.1.1..                 Le idee semplici corrispondono alle qualità secondarie delle cose.

14.2.2.1.1.1.              Dalle qualità secondarie, che variano a seconda della situazione soggettiva (una cosa rossa può apparire grigia, una cosa dolce amara ecc.), vanno distinte le qualità primarie (le grandezze fisiche) che si suppongono intrinseche agli oggetti stessi e che si possono inferire in quanto sono ciò che rimane costante indipendentemente dal punto di vista da cui li si considera.

14.2.2.2.1..                 Le idee semplici sono sempre vere: non si può non percepire ciò che si percepisce.

14.2.2.2.            La mente costruisce, combinando idee semplici, le idee complesse di

14.2.2.2.1.1.              modo (ciò che inerisce ad altro, p.e. la forma cubica di un dado, il profumo di un fiore ecc.);

14.2.2.2.1.2.              sostanza (ciò che si suppone stia per sé; p.e. il dado stesso, il fiore);

14.2.2.2.1.3.              relazione (p.e. il rapporto di grandezza tra due dadi distinti o il rapporto di parentela tra due persone).

14.2.2.2.2..                 Le idee complesse, in quanto frutto di elaborazione mentale, possono corrispondere o meno a oggetti reali. Anch’esse tuttavia, in quanto tali, “sono quello che sono”.

14.2.2.3.            La conoscenza vera e propria (che può essere vera o falsa) si raggiunge quando si generalizzano proprietà di idee complesse attribuendole a idee generali (che scaturiscono proprio della generalizzazione di queste proprietà).

14.2.2.1.3..                 Se p.e. misuro l’area di un certo numero di triangoli e constato che essa è sempre pari al semiprodotto della base per l’altezza possono generalizzare questa proprietà considerandola valida per il “triangolo in generale”.

14.2.2.3.1.1.              Inversamente posso dire che è un “triangolo” ciò che è caratterizzato da detta proprietà (dunque stabilisco un criterio per l’assegnazione a un oggetto di un determinato nome).

14.2.2.2.3..                 Ma che cos’è questo triangolo in generale? E’ solo un nome che sta per ogni possibile triangolo.

14.2.2.3.2.1.              Se, infatti, cerco di rappresentarmi questo “triangolo il generale”, lo faccio sempre tramite un triangolo particolare.

14.2.2.3.3..                 Le proposizioni relative alle proprietà delle idee generali (che esprimono leggi di natura) possono essere vere o false.

14.2.2.3.3.1.              Esse si ricavano per induzione dai casi particolari (per esempio col metodo baconiano) e restano vere fino a prova contraria.

14.2.2.3.3.2.              Questa interpretazione empiristica della conoscenza scientifica (che non la rende sostanzialmente diversa dalla conoscenza comune, solo più raffinata, cfr. il metodo di Bacone) è propria, ad es., anche di Newton.

 

15.             David Hume continua nel sec. XVIII l’opera di Locke precisando alcuni aspetti della prospettiva empiristica.

15.1.          Hume distingue tra

15.1.1.                idee vere e proprie (immagini e ricordi di percezioni) e

15.1.2.                impressioni (le idee attuali di Locke, ossia la percezione viva).

15.1.2.1.            Le impressioni potrebbero anche non essere dovute a oggetti reali (scetticismo ontologico).

15.2.          Come Leibniz Hume ammette alcune relazioni necessarie tra idee (corrispondenti alle “verità di ragione” la cui negazione implica contraddizione).

15.2.1.                Tuttavia egli spiega tali relazioni (fondamentalmente le leggi della matematica: per es. il triangolo ha tre lati e tre angoli ecc.) come necessarie semplicemente perché costruite da noi stessi, non ricavate dall’esperienza.

15.2.1.1.            In quanto tali, queste relazioni non ci fanno conoscere niente di nuovo che già non fosse implicito nelle idee di cui sono costituite.

15.2.2.                Le altre relazioni tra le idee sono matter of fact (“verità di fatto”, contingenti e non necessarie) e vengono costruite sulla base dell’esperienza in base a leggi di associazione.

15.2.2.1.            A differenza di Leibniz Hume pensa che tali relazioni non solo non siano necessarie (come pensava anche Leibniz), ma non si possano neppure predire sulla base di un principio di ragion sufficiente (ossia di leggi di causa-effetto).

15.3.          Rispetto a Locke Hume spiega come le idee semplici si associano in idee complesse e come queste ultime si associano a loro volta tra loro.

15.3.1.                Le forze che producono l’associazione tra le idee sono generate dalle idee stesse sulla base della loro

15.3.1.1.            contiguità,

15.3.1.2.            successione,

15.3.1.3.            similitudine.

15.4.          L’abitudine a questi tre caratteri genera la credenza (belief) sulla base della quale ci costruiamo le idee complesse e le idee generali.

15.4.1.                Le leggi di natura, scoperte dalla scienza, sono quindi solo l’espressione di regolarità inferite sulla base dell’abitudine.

15.4.1.1.            L’induzione scientifica non differisce sostanzialmente, checché Bacone ne pensasse, da quella ingenua del filosofo antico e dell’uomo qualunque.

15.1.4.1.1..                 Essa può generare, a rigore, solo opinioni, più o meno argomentabili su basi indiziarie, ma non certezze.

15.1.4.2.1..                 Ne va, quindi, dell’universalità e necessità del sapere scientifico, degradato a sapere comune.

15.4.2.                In particolare la legge di causa ed effetto, secondo Hume, costituisce una sorta di “illusione della ragione”.

15.4.2.1.            L’esempio del tavolo da biliardo ci illustra come siamo portati a scambiare una relazione di successione temporale (il moto della palla A in rapporto a quello delle palla B, colpita da A) con una relazione di tipo causale; ossia una mera sequenza cronologica con una conseguenza logica.

15.2.4.1.1..                 Si può osservare che anche il linguaggio testimonia questo passaggio: diverse congiunzioni “causali” (o consecutive) come poiché, dacché, giacché, quindi avevano in origine un chiaro significato temporale (dopo che, da quando, ora che, e dopo ecc.)

 

$       Cfr cap. X, §§ 1-2.4 del manuale (Locke, esclusa la teoria politica)

$       Cfr. cap. XI, §§ 1-6 del manuale (Hume, esclusa la teoria politica)

$       Hai identificato le diverse tipologie di idee, in senso lockiano e humiano, sottese a un certo numero di proposizioni.

 

16.             Immanuel Kant alla fine del XVIII cerca di risolvere in modo più soddisfacente il problema della conoscenza, portato in primo piano della rivoluzione scientifica, di quanto non abbiano fatto razionalisti e  empiristi (compresi gli stessi primi scienziati, come Galileo e Newton).

16.1.          Si rende conto in primo luogo che la conoscenza (particolarmente quella scientifica) non può prescindere né dalla ragione, né dall’esperienza. Per questo aspetto Kant può ben a ragione essere considerato un “campione” dell’illuminismo europeo.

16.1.1.                La ragione, tuttavia, va esercitata in senso trascendentale, ossia va applicata all’esperienza e non a se stessa.

16.1.1.1.            Quando la ragione cerca di trarre conoscenza “giocando” con le proprie idee innate, con i propri concetti puri (per es. con la nozione di “causa”, “identità” ecc.), ad esempio cercando di dimostrare per assurdo l’esistenza di Dio o l’immortalità dell’anima, cade senza avvedersene in antinomie (uso metafisico della ragione).

16.1.1.1.1..                 L’antinomia è quel particolare tipo di aporia che si produce quando la “verità di ragione” che ho dimostrato facendo vedere che la sua negazione è contraddittoria (ossia che ho dimostrato per assurdo, senza ricorrere ad esperimenti) genera a sua volta contraddizioni.

16.1.1.1.1.1.              In questo caso né la tesi né la sua antitesi reggono all’analisi filosofica e la ragione sembra andare “in tilt”.

16.1.2.                L’esperienza è la sola sorgente di conoscenza effettiva, ossia di nozioni nuove che prima non si possedevano.

16.1.2.1.            Il problema, in questo caso, è di riuscire a generalizzare i risultati sperimentali pervenendo a leggi che abbiano un valore universale e necessario (e non solo contingente, fino a prova contraria).

 

16.2.          Per risolvere questi problemi Kant propone quella che egli chiama una rivoluzione coperanicana.

16.2.1.1.            Come Copernico ha “spostato” il centro dell’universo dalla Terra al Sole,

16.2.1.2.            così Kant sposta il centro della conoscenza dall’oggetto conosciuto al soggetto conoscente.

16.2.2.                Consideriamo un “oggetto” qualsiasi, per esempio un “dado”.

16.2.2.1.            Se prescindiamo da quelle che Galileo, Cartesio e Locke (in questo concordi) considererebbero le sue qualità soggettive o secondarie, ossia quelle percepite dai 5 sensi (colore, ruvidità ecc.), rimangono le sue cosiddette qualità oggettive o primarie: forma geometrica, volume, peso, massa ecc.

16.2.2.2.            Ma queste cosiddette qualità “oggettive” - nota Kant - dipendono anch’esse, essenzialmente, da un “sistema di riferimento” spaziale e temporale e da una serie di “concetti puri”, propri del soggetto conoscente: è dal soggetto, dunque, che esse dipendono, non diversamente dalle qualità cosiddette soggettive.

16.2.2.1.2..                 La sola differenza è che la qualità oggettive sono “uguali” per tutti i soggetti umani (sani), mentre quelle cosiddette “soggettive” possono variare da persona a persona.

16.2.3.                Se vogliamo seguire, ordinatamente, come si “costituisce” l’oggetto “dado” con le sue proprietà e relazioni, a titolo esemplificativo, possiamo considerare una serie di “fasi”.

16.2.3.1.            In primo luogo dobbiamo ammettere che qualcosa “esista” fuori di noi, qualcosa la cui sensazione genera nella nostra “mente” il fenomeno “dado”: questo qualcosa, ancora privo di forma, dimensioni ecc., è la cosa in sé, di cui, però, non sappiamo nulla.

16.3.2.1.1..                 Questo “qualcosa” deve esistere, come fonte delle nostre impressioni, perché, come già aveva notato Hume, esse non possono essere frutto della nostra volontà (le “idee” che siamo in grado di fantasticare hanno un grado di evidenza molto minore degli oggetti che siamo “costretti” a percepire: a riprova dell’origine “esterna” delle nostre impressioni).

16.2.3.2.            In secondo luogo possiamo chiamare fenomeno l’immagine tridimensionale del nostro “dado”, così come ci è restituita dalle forme pure (o a priori) dello spazio e del tempo. Si tratta di forme trascendentali (non metafisiche), perché sono condizione di possibilità dell’esperienza: se non si “riempiono” di materia sensoriale sono inutili (come un sistema di riferimento vuoto).

16.2.3.3.            In terzo luogo si costituisce il vero e proprio oggetto “dado” (da distinguere dalla cosa in sé o noumeno), così come esso è configurato in giudizi (corrispondenti a “pensieri”) quali: “il dado è bianco” o “il dado è cubico”: si tratta di una costruzione spontanea dell’intelletto (ossia la ragione in quanto si applica ai sensi) che, selezionando liberamente certi elementi dei fenomeni, applica loro

16.3.2.1.3..                 una categoria per ciascuna delle 4 “classi di categorie” di cui disponiamo.

 

$       Cfr cap. XII, § 3; §§ 5-8.1 del manuale (Kant, estetica e logica trascendentale)

$       Hai identificato le diverse classi di categorie, in senso kantiano, sottese a un certo numero di proposizioni.

 

16.2.4.                Quando esprimiamo un giudizio su qualcosa che cosa facciamo esattamente?

16.2.4.1.            Non possiamo che applicare una categoria, per ciascuna classe, al “materiale empirico”, ossia ai fenomeni che cadono sotto i nostri sensi.

16.4.2.1.1..                 Abbiamo, infatti, altrettanti tipi di giudizio quante categorie (anzi, Kant ha ricavato le 12 categorie proprio dalla tavola dei tipi di giudizio - risalente alla logica antica -, chiedendosi, di volta in volta: “che tipo di funzione logica [categoria] scatta perché questo tipo di giudizio sia possibile?”)

16.4.2.2.1..                 Applicando le categorie ai fenomeni nell’attività del giudicare, noi costituiamo gli oggetti “empirici”, utilizzando dei concetti empirici.

16.2.4.1.2.1.              Ad esempio: se vedo un padre e una madre e una figlia posso dire, a parità di fenomeno, “ecco una famiglia” oppure “ecco tre persone”, a seconda che preferisca adoperare la categoria dell’unità o quella della pluralità.

16.2.4.1.2.1.1.                              Non avrebbe senso chiedersi: “Ma insomma, si tratta di una famiglia o di tre persone?”, perché l’”oggetto” in questione (famiglia vs persona) è “costruito” dal nostro intelletto, non è nulla in sé.

16.2.4.1.2.2.              In questo esempio il concetto “famiglia” ha origine empirica (a differenza del concetto di “uno” o di “tre”, che sono puri, derivando dalla classe di categorie della quantità), perché non deriva da nessuna categoria, non è priori, ma si è prodotto in seguito a ripetute esperienze di gruppi familiari (come avrebbe sostenuto volentieri anche un empirista).

16.4.2.3.1..                 Si noti che mentre la sensibilità è ricettiva, perché non possiamo non vedere quello (cioè il fenomeno) che vediamo, l’intelletto (ossia la ragione applicata all’esperienza) è spontaneo, perché possiamo organizzare liberamente il materiale empirico mediante il giudizio, a condizione di servirci comunque sempre di una categoria per ogni classe.

16.2.4.2.            Ma questo uso empirico delle categorie non ci consente di generare un sapere propriamente scientifico, perché il fondamento della conoscenza resta empirico, con tutti i limiti che ciò comporta (cfr. il limite delle prospettive di Bacone, Locke, Hume, dal punto di vista della fondazione della scienza): in particolare, il sapere non acquista i caratteri dell’universalità e della necessità, ma si presta alla confutazione ad ogni nuova esperienza (dunque, in termini platonici, non si tratterebbe di scienza, ma sempre solo di un’opinione, per quanto suffragata da indizi).

 

$       Cfr cap. XII, § 4 del manuale

 

16.2.5.                I giudizi corrispondenti all’uso empirico delle categorie (corrispondenti alle “verità di fatto” di Leibniz e alla “matter of fact” di Hume), sono giudizi sintetici a posteriori:

16.2.5.1.            sintetici, perché il predicato non è implicito nel soggetto (p.e. il “bianco” non è implicito nel “dado” nella frase: “il dado è bianco”);

16.2.5.2.            a posteriori, perché ne posso accertare la veridicità solo empiricamente.

16.2.6.                Kant contempla anche i giudizi analitici a priori (corrispondenti alle “verità di ragione” di Leibniz e alle “relazioni tra idee” di Hume):

16.2.6.1.            analitici, perché il predicato è implicito nel soggetto (p.e. il “triangolare” nel “triangolo” nella frase: “il triangolo è triangolare”);

16.2.6.2.            a priori, perché non ho bisogno di una verifica empirica per accertarne la verità.

16.2.7.                Se i giudizi sintetici a posteriori hanno il limite di dipendere dall’esperienza che li può sempre smentire, i giudizi analitici a priori , pur essendo veri a priori, hanno il limite di non generare nuova conoscenza (sviluppando quanto già implicito nel loro soggetto).

16.2.7.1.            Kant si propone pertanto di trovare un giudizio, che pur generando nuova conoscenza (dunque essendo sintetico), non richieda il ricorso all’esperienza per essere verificato (che, quindi, sia a priori).

16.2.7.2.            Giudizi di questo genere, fondamento del sapere scientifico (“principi di metafisica della natura” li chiama Kant), si possono ricavare, secondo Kant, applicando le categorie NON direttamente ai fenomeni empirici, ma alle forme pure a priori della sensibilità, ossia spazio e, soprattutto, tempo.

16.7.2.1.2..                 Infatti, se applico ciascuna delle mie 12 categorie alla forma pura del tempo ottengo uno schema trascendentale del comportamento dei fenomeni che qualunque fenomeno, dovendo venire da me conosciuto, dovrà osservare (dato che dovrà venire, per così dire, “filtrato” attraverso la mia sensibilità spaziotemporale).

16.2.7.2.1.1.              Consideriamo che cosa ne risulta con riferimento alle fondamentali categorie della relazione.

16.2.7.2.1.1.1.                              In un qualunque fenomeno x si dovrà poter distinguere qualcosa che permane da qualcosa che varia.

16.2.7.2.1.1.1.1.                           Ciò lo si ricava considerando che il fenomeno, che viene percepito nel tempo, viene giudicato sulla base della categoria di sostanza e accidente.

16.2.7.2.1.1.1.2.                           Sulla base di questo “schema trascendentale” (quello della “permanenza”, ricavato dalla categoria di “sostanza e accidente”) Kant ricava il principio universale della conservazione della materia (oggi diremmo dell’energia): ossia l’idea che in natura, per noi, debba esistere qualcosa di invariante nella variazione dei fenomeni, pena l’inconsistenza di qualsiasi pretesa scientifica.

16.2.7.2.1.1.2.                              Analogamente in qualunque fenomeno dovrò distinguere un evento precedente da uno seguente (per esempio nella successione dei moti delle palle da biliardo di cui parlava Hume); non solo, ma, sulla base della categoria di causa ed effetto, cercherò in quello che precede la causa di quello che segue.

16.2.7.2.1.1.2.1.                           Sulla base di questo schema (detto della “successione”) Kant ricava il principio della causalità universale e in particolare quello di azione e reazione: in natura, sempre per noi, non si dànno eventi senza causa, perché ciò che avviene in un determinato momento nel tempo richiede una spiegazione che risalga ai momenti precedenti (il che non implica che la spiegazione che fornisco, empiricamente, sia sempre quella corretta: tuttavia non posso fare a meno di cercare una spiegazione di tipo causale: Hume aveva torto).

16.2.7.2.1.1.3.                              Infine, non posso fare a meno di pensare che due fenomeni simultanei si condizionino reciprocamente per il solo fatto di coesistere nello spaziotempo (in forza della categoria della reciprocità o interdipendenza).

16.2.7.2.1.1.3.1.                           Su questa base Kant ricava il principio della gravitazione universale (ossia l’idea che le parti di quella stessa materia invariante , che è stata “scoperta” applicando la categoria di sostanza allo spaziotempo, esercitino un’azione reciproca di attrazione o repulsione).

16.7.2.2.2..                 Si può osservare che, mentre i valori delle singole grandezze fisiche non possono che dipendere da misure empiriche (“quanto è forte l’attrazione esercitata dalla Luna sulla Terra?” ecc.) ed essere, quindi, soggetti all’errore, le leggi fondamentali della natura, secondo Kant, pur essendo in qualche modo “scoperte” di qualcuno (giudizi sintetici) , sono universali e necessarie, perché a priori, allo stesso modo del risultato di un complesso calcolo aritmetico (che nessuno potrebbe ricavare analiticamente dai suoi componenti, ma che, una volta ottenuto, è certissimo e indubitabile).

 

$       Cfr cap. XII, §§ 8.3-5 del manuale

 

16.2.8.                Secondo Kant, in ultima analisi, noi possiamo essere sicuri dei principi fondamentali della scienza della natura (fisica, in senso lato), semplicemente perché essi non costituiscono che il nostro modo di percepire (con i sensi, nello spazio e nel tempo) e di intendere (con l’intelletto) la realtà (i fenomeni).

16.2.8.1.            In alcun modo si potrebbe ricavare l’esistenza di una grandezza invariante nell’universo (sia questa la massa o l’energia) se questa avesse una realtà in sé, indipendente da noi:

16.8.2.1.1..                 né attraverso prove empiriche (perché queste potrebbero riferirsi sempre solo a casi particolari),

16.8.2.2.1..                 né sarebbe legittimo, secondo Kant, tentare di dimostrarla per assurdo, in modo puramente razionale (perché questo tipo di dimostrazioni o sfociano in antinomie, oppure non ci dicono niente di più di quanto già non sapessimo).

16.2.8.2.            Bisogna ammettere che, mentre non sappiamo assolutamente nulla di che cosa esista in sé (ma semplicemente che qualcosa, fuori di noi, esiste), certamente non possiamo fare a meno di ricostruire mentalmente i fenomeni, nel loro svolgersi nel tempo, ipotizzando questa grandezza invariante (e altre proprietà fisiche fondamentali, come la gravità ecc.).

16.8.2.1.2..                 Basti pensare che, anche solo per poter svolgere qualche esperimento, io devo presupporre che alcune grandezze restino costanti (senza poterlo a sua volta dimostrare!), in modo da poter calcolare la variazione che l’esperimento stesso induce in altre.

16.2.8.2.1.1.              Se, ad esempio, in una reazione chimica il peso complessivo dei reagenti, a reazione avvenuta, diminuisce rispetto alle condizioni iniziali, posso legittimamente congetturare che parte della massa si sia trasformata in gas oppure in energia solo se  presuppongo che la massa complessiva o anche solo l’energia costituiscano una costante.

16.2.8.2.1.2.              Se, invece, supponessi che in qualunque istante potesse apparire o scomparire una certa quantità di materia senza alcuna regola, non potrei mai trarre alcuna conclusione da alcun esperimento.

16.2.8.3.            La soluzione di Kant è: sono certo che i principi fondamentali - che devo presupporre nella scienza della natura - siano validi perché essi non sono altro che un’espressione del mio modo di conoscere; in altre parole, essi saranno sempre veri fintanto che io resterò un essere umano.



[1] Abbagnano, Fornero, Autori di Fare filosofia, Milano, Paravia, vol. II

[2] Vedremo che il filosofo inglese Bacone (XVI-XVII secc.), secondo cui “sapere è potere”, afferma anche che “la natura non si vince se non obbedendole”.

[3] Si noti che la nozione di “forza” potrebbe  venire intesa come un residuo antropomorfico.

[4] Per una più completa esposizione delle nozioni principali della Fisica di Aristotele vedi la scheda relativa.

[5] Cfr. la scheda relativa, pp. 1-3.

[6] Cfr. la scheda relativa, pp. 3-6.

[7] In questa prospettiva, p.e., i pianeti possono sì esercitare un’attrazione reciproca e muoversi intorno alla Terra o al Sole, ma solo se li concepiamo, platonicamente, come “animali”.

[8] Si noti come un’eco di questa “accusa” di magia al paradigma newtoniano si ritrovi in Einstein, il quale cercherà, cartesianamente, di interpretare le forze (gravitazionale, inerziale) come effetti apparenti di moti inerziali nel continuum spaziotemporale.

[9] Si noti che anche per Copernico e Galileo, a differenza che per Keplero e Newton, il moto circolare uniforme è “naturale” e non richiede una spiegazione in termini di forza (gravitazionale o magnetica).

[10] Nel caso della Luna e del Sole si fa riferimento al “giro” completo che essi compiono rispetto allo “sfondo” costituito dalle stelle fisse: se invece guardiamo alla relazione con la Terra, come le stelle, compiono anch’essi un’apparente rivoluzione giornaliera.

[11] Si noti che Aristotele, seguendo la tradizione che risale almeno a Pitagora, applica volentieri ai cieli la matematica, mentre preferisce le spiegazioni qualitative per i fenomeni terrestri.

[12] Si noti che Galileo non distingue tra moto rettilineo e moto circolare uniforme: per lui sono entrambi moti inerziali. In realtà un oggetto lasciato cadere dall’alto cade secondo una traiettoria leggermente obliqua, vista da terra, nella direzione del moto della superficie terrestre (e non in quella opposta, come pensavano gli aristotelici). Questo dipende dal fatto che i punti collocati ad altitudini maggiori, dal momento che la circonferenza che percorrono nelle 24 ore è maggiore, si muovono a velocità maggiore dei punti collocati ad altitudini inferiori. Cadendo, essi conservano (facendo astrazione dalla resistenza dell’aria) questa maggiore velocità nel senso della direzione del moto di rotazione della Terra.

[13] Si potrebbe quasi suggerire che per ironia della sorte il metodo scientifico in senso moderno, con il peso assegnato alla dimostrazione empirica, derivi proprio dalla pressione esercitata dall’Inquisizione romana su studiosi che, fosse stato per loro, ne avrebbero fatto a meno.

[14] Si tratta di argomentazione per assurdo. Se l’universo fosse finito, Dio non sarebbe onnipotente: infatti, data una certa dimensione x dell’universo che cosa avrebbe potuto impedire a Dio di crearlo più grande di una misura n? Qualunque dimensione dell’universo diversa dall’infinito presupporrebbe un Dio meno potente di ciò che Dio non sia.

[15] Dicesi parallasse l’angolo formato da un gruppo di stelle avente per vertice la Terra. Se il cielo delle “stelle fisse” fosse collocato a distanza finita e al centro dell’universo si trovasse il Sole, tale angolo varierebbe nel corso dell’anno (il gruppo di stelle considerato apparirebbe più o meno esteso e luminoso) in relazione alla rivoluzione della Terra intorno al Sole. Dal momento che, però, tale fenomeno non si registra (in misura apprezzabile, per gli strumenti dell’epoca), o si ritorna alla tesi aristotelica secondo cui è la Terra, immobile, al centro dell’universo oppure si deve ammettere che le stelle si trovino a distanza non finita dal Sole (e quindi anche dalla Terra).

[16] Questa implicazione, oltre che un interesse scientifico, riveste un enorme valore culturale: si rompe l’universo chiuso, in cui ciascuna creatura abita il proprio luogo, a seconda della propria essenza, e in cui tutti gli esseri sono disposti in una gerarchia - anche spaziale - che vede Dio al vertice, circondato dagli angeli del cielo; ora ogni punto dell’universo può essere (e non essere) il centro, dunque anche l’uomo, che, grazie alla libertà (cfr. Pico della Mirandola) può decidere o meno di collocarvisi: può scegliere se essere Dio o una fiera. Il senso profondo dell’Umanesimo, quindi, non sta tanto nell’avere rivalutato l’uomo dal punto di vista della “gerarchia” (egli non occupa, in assoluto, una posizione migliore che nel Medioevo), quanto nell’avergli riconosciuto un’assoluta libertà, rendendolo potenzialmente pari a Dio. E questo, paradossalmente, proprio mentre, con Copernico, lo si colloca alla semi-periferia del sistema dei pianeti, invece che al centro!

[17] Potrebbe essere interessante sviluppare queste intuizioni sulla natura virtuale della distanza con riferimento ai paradossi della moderna meccanica quantistica, in particolare al paradosso cosiddetto di Einstein-Podolsky-Rosen: due particelle, originariamente unite, che “ora” non possono più comunicare tra loro (se non a velocità superluminari, ossia superiori a quella della luce, il che dovrebbe essere impossibile) a causa della distanza che le separa e della velocità con cui si allontanano l’una dell’altra, opportunamente sollecitate, si comportano come se ancora l’una “dipendesse” dal comportamento dell’altra.

[18] Questa espressione, di origine platonica, significa in primo luogo “rendere ragione dei fenomeni” o “spiegare i fenomeni”. Tuttavia, nel suo significato più profondo, presuppone che la “teoria”, in quanto tale, sia vera, abbia qualcosa di divino: in questa prospettiva la corrispondenza delle osservazioni alla teoria non ha tanto la funzione, che le attribuiremmo noi, di “salvare la teoria” stessa, verificandola, ma proprio quella contraria: di “salvare le apparenze” dimostrando che non di “inganno sensoriale” si tratta ma di una vera e propria “scoperta” scientifica.

[19] La fisica moderna (e in generale quella che chiamiamo “scienza”, quindi anche la biologia ecc.) copre, per certi aspetti, l’area occupata da quei saperi che gli antichi chiamavano matematici, non solo perché si basavano su misure, ma anche perché si fondavano su ipotesi di comodo. L’ambiguità nasce dalla pretesa dei primi scienziati, come Galileo e Newton, che, pur adottando procedimenti matematici, questo tipo di sapere avesse però un valore di verità pari o, anzi, superiore a quello dell’antica fisica: le ipotesi diventano per loro principi, anche se metodologicamente non ci si discosta dai procedimenti ipotetici e non si dimostra realmente la necessità razionale dei principi stessi (cfr. il principio di gravitazione di Newton), salvo che in rari casi, privilegiando la “verifica” sperimentale (che, però, non è mai esaustiva).

[20] Esempio di questo tipo di fisica è dato da quella di Aristotele, qualitativa e fondata su principi assoluti (per es., potenza e atto o i 4 elementi).

[21] Si fa riferimento, qui e in seguito, ai T[esti] numerati all’interno delle L[ezioni] di cui è costituita l’antologia a cura di D. Zucchello, Dal labirinto al testo. Scienza e metodo in Bacone, Galileo e Cartesio, Milano, Colonna 2005 ss.

[22] IIn Platone le idee sono le essenze stesse delle cose (o anche i modelli nella mente di Dio, mediante il quali sono state fatte tutte le cose). Da Cartesio in poi chiamiamo idee le nozioni o i concetti che ne abbiamo nella nostra mente.